sabato 11 dicembre 2021

Gerusalemme, luogo dell’anima: una madre che educa e fa crescere, del Patriarca Pierbattista Pizzaballa


Gerusalemme, luogo dell’anima
Una madre che educa e fa crescere

del Patriarca Pierbattista Pizzaballa




Introduzione

Di Gerusalemme si parla molto in questo periodo. Predomina, certamente, l’aspetto politico, legato al conflitto Israelo-palestinese e alle varie proposte che periodicamente vengono presentate sul futuro della città da tutti amata e allo stesso tempo, e forse proprio per questo, contesa.
Non mancano gli sguardi della comunità internazionale sulla Città Santa. Le iniziative in tutto il mondo legate a Gerusalemme sono innumerevoli, sia dal punto di vista politico che quello religioso. Sono tantissimi gli inviti a parlare ai vari panel e alle discussioni pubbliche su questo tema, segno dell’interesse crescente. Non mancano, naturalmente, i riferimenti religiosi, inevitabili quando si parla di Gerusalemme.
Il fenomeno delle migrazioni di popoli, inoltre, e il fatto che in tutto il mondo popolazioni con culture e fedi differenti siano sempre più mischiate e connesse tra loro rende sempre più evidente la necessità di approfondire e dare contenuto al dialogo interreligioso. I conflitti a sfondo religioso attualmente in corso nel mondo, rendono ancora più urgente tale necessità.
E proprio per questo, parlando di dialogo interreligioso e di incontro tra popoli, non si può non pensare a Gerusalemme, la città tre volte santa, cuore della rivelazione per credenti ebrei, cristiani e musulmani. Abitata da israeliani e palestinesi, amata, voluta e contesa da entrambi.

A Gerusalemme gli argomenti religiosi si intrecciano con le prospettive politiche di israeliani e palestinesi. Le loro strategie politiche legate alla Città Santa, infatti, hanno come fondamento le loro rispettive narrative religiose sulla città.
Il legame religioso di ebrei e musulmani con la città, in altre parole, viene spesso tradotto dalle rispettive parti politiche – israeliana e palestinese - in scelte precise, legate alla vita concreta della città, ai suoi confini e soprattutto ai suoi Luoghi Santi. Ciascuno vuole esprimere anche politicamente la propria sovranità sulla città, o almeno su una porzione di essa, specie nella parte dove si trovano i propri Luoghi Santi, testimoni della propria storia di fede, che però è anche storia di popolo e identità nazionale. Proprio per questo le tensioni politiche e religiose nella città sono sempre molto alte, le sensibilità delicate e fragili, le reazioni esagerate. Toccare un Luogo, spostare i confini, affermare la propria sovranità su una parte della città, è visto come una necessità; è un modo per fissare nel territorio i propri riferimenti religiosi che, come dicevamo, sono anche riferimenti nazionali e quindi politici. L’affermazione della propria storia, tuttavia, espressa concretamente nel territorio da una parte, viene anche vista come una negazione per l’altra, la quale si sente defraudata a sua volta della propria storia e della sua identità nazionale. In altre parole, l’affermazione di uno viene vista come la negazione dell’altro, un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.

Rende ancora più complicata la situazione il fatto che in alcuni Luoghi Santi convergono le narrative religiose differenti, o addirittura antitetiche, di ebrei, musulmani e, in alcuni casi, anche cristiani. Basti pensare alla Spianata del Tempio, o Haram Esh-Sharif. Due nomi differenti per lo stesso Luogo, sul quale sorgeva l’antico tempio di Salomone e poi di Erode, il luogo più sacro per gli ebrei. Ma allo stesso tempo è anche il luogo più sacro, dopo Mecca e Medina, per i musulmani i quali fanno memoria della salita al cielo del profeta Maometto, sede di una delle più importanti e antiche Moschee esistenti al mondo. O pensiamo all’attuale Monte Sion, dove convivono tre narrative differenti nello stesso luogo: il cenotafio del re Davide, conosciuto come Tomba del re Davide per gli ebrei, il cenacolo cristiano che conserva la memoria dell’Ultima cena e della lavanda dei piedi, e il ricordo del profeta Dahood (il Re Davide) per i musulmani. L’intreccio, dunque, di sovranità politica, di narrative religiose differenti, di diverse identità nazionali, di Luoghi Santi accavallati l’uno sull’altro rende la vita della città assai complicata. Gli equilibri sono fragilissimi, sempre sul punto di rompersi.

Rispetto a tutto ciò, i cristiani hanno un approccio differente. La prospettiva cristiana, infatti, mantiene ben distinta la sfera religiosa da quella politica. Non c’è una rivendicazione di sovranità politica cristiana sulla città. I cristiani palestinesi sono solidali con i palestinesi e si identificano con la prospettiva palestinese. A loro volta, i cristiani israeliani tendono a condividere la prospettiva del loro Paese.
I cristiani in quanto cristiani hanno solamente una rivendicazione religiosa e spirituale sulla città. Il fatto che politicamente i cristiani si identifichino con il proprio popolo di appartenenza, infatti, non significa che non vi sia un interesse cristiano sulla città. In altre parole, non spetta ai credenti in Cristo stabilire chi, come e a quali condizioni debba governare sulla città; ma è certamente nostro diritto e dovere esprimere un giudizio sul carattere che la città deve mantenere: universale, multiculturale, aperto e solidale, patrimonio comune e non monopolio esclusivo di qualcuno. Insieme a quella ebraica e musulmana, vi è dunque anche una narrativa cristiana sulla città, nella quale si trovano anche i più importanti Luoghi Santi cristiani, testimoni degli eventi principali della vita di Gesù. E proprio a partire da questo, da parte dei cristiani scaturisce un richiamo verso la politica e verso i due popoli che abitano la città a rispettare il suo carattere aperto e multiforme. La comunità cristiana non cessa anche di richiamare la comunità internazionale a intervenire e farsi garante di tale carattere aperto e universale. Riteniamo, infatti, che Gerusalemme, per la sua storia e per l’alto valore simbolico che essa ricopre nella vita di miliardi di credenti nel mondo, debba essere considerata patrimonio di tutti e che, quindi, si debbano trovare formule nella gestione di questa città che rispettino questo carattere sacro e universale.

Non è questa la sede per entrare in disquisizioni storiche e religiose riguardo a Gerusalemme. Questa breve e assai superficiale introduzione è solo per cercare di far intuire quale sia l’enorme complessità esistente nella Città Santa e quanto sia complicato orientarsi in questo intricato ginepraio di storie, religioni, sentimenti, politica e nazioni.
Mi è stato chiesto di presentare brevemente il ruolo storico e profetico della città e di mostrare come il dialogo, nonostante tutto e pur fra mille difficoltà, continui ad essere una realtà che esiste ed è vitale, e che però va cercata. È il tesoro nascosto che si scopre solo se lo si cerca.
Inizialmente proverò, dunque, a spiegare perché la città sia così importante per i credenti delle tre fedi monoteiste. Sarà una presentazione per sommi capi, il cui intento è solo quello di mostrare l’attaccamento delle tre fedi e dei due popoli alla città. Cercherò infine di illustrare le modalità concrete di convivenza e di dialogo degli abitanti di questa città piena di affascinanti contraddizioni.

Gerusalemme tra storia e profezia

Ebraismo, Cristianesimo e Islam hanno due elementi comuni: la fede in un Dio unico e la Sua rivelazione; l'unico Dio, Padre di tutti, si è rivelato all’uomo. Seppur espressa in forme diverse, i fedeli delle tre religioni abramitiche credono che l’unico Dio abbia parlato, si sia rivelato e che questa rivelazione sia storica e verificabile.
Naturalmente ciascuna di queste affermazioni può essere ragionevolmente sottoposta a serie critiche. Ma, al di là delle varie articolate valutazioni su ciascuna fede e delle enormi ed evidenti differenze esistenti tra loro, in questa sede a noi interessa solo sottolineare come per tutte e tre le religioni monoteiste, la fede sia legata ad una rivelazione, ad una storia e a un libro. Per ebrei e cristiani inizia con Abramo e percorre tutto l’Antico Testamento. Per noi cristiani la storia continua con Gesù e la primitiva comunità cristiana e i suoi scritti. Nell’Islam è legata al profeta Maometto, alla rivelazione che egli ha ricevuto, raccolta nel Corano.
Ma, se vi è una storia, deve esserci anche una geografia. Se c’è un evento, deve esserci anche un luogo. Senza luogo, non c’è evento. Un’evidenza banale, forse, ma che è alla base della vita reale e della struttura concreta di tutte e tre le fedi monoteiste.
Per questa ragione i musulmani si recano almeno una volta nella vita alla Mecca. Per questo – per restare a Gerusalemme – il pellegrinaggio e il legame con la spianata delle moschee, Haram Esh-Sharif, è così importante per loro.

Per questa stessa ragione noi cristiani abbiamo cura dei Luoghi Santi che sono stati testimoni della rivelazione biblica e in particolare della vita di Gesù. Questi due elementi (storia-geografia) sono necessari l’uno all’altro. Togliere uno dei due elementi, significa negare l’evento stesso. È sempre stato essenziale per la Chiesa non solo guardare a Gerusalemme come ad un richiamo spirituale, ma rimanere in essa anche fisicamente. È caratteristico per la vita della Chiesa dire: “Cristo è risorto, non è qui, venite a vedere il Luogo dove era sepolto” (Mt 28:6).
Fin dal principio la comunità cristiana si è ritrovata nei Luoghi per fare memoria. Il fare memoria non è un semplice richiamo di un evento passato. Quell’evento è ciò che ancora oggi alimenta la vita del cristiano. La resurrezione di Cristo è il fondamento attuale della nostra vita di fede. Ancora oggi abbiamo bisogno di correre per vedere il sepolcro vuoto di Cristo, un modo per fare esperienza dell’incontro con il risorto. Per questo è per noi necessario stare in quei Luoghi, per custodire l’attualità di quell’evento. Gerusalemme è il cuore di questo principio.

Discorso simile vale per il popolo di Israele.

Nell’ebraismo, addirittura, non si può distinguere tra fede in Dio, appartenenza al popolo e legame con la Terra. Nell’ebraismo, la Terra e in particolare Gerusalemme, è sempre stata una parte essenziale dell’esperienza di fede, anche durante i duemila anni di esilio. Non vi è preghiera senza un richiamo alla Città Santa. Dopo la nascita dello Stato di Israele questo legame spirituale e storico è diventato anche politico. Lo Stato di Israele, la patria per gli ebrei di tutto il mondo, è la casa che deve proteggere e custodire l’unità del popolo dell’Alleanza, la sua sicurezza e la sua identità.
Tra i compiti, dunque, dello Stato ebraico vi è quello di esprimere concretamente, nelle forme possibili oggi, il legame con la terra e soprattutto con i Luoghi Santi della propria identità religiosa e nazionale. Più avanti vedremo anche le conseguenze che tutto ciò comporta sul piano politico.

Non si tratta, allora, di devozionismo sofisticato, ma di una necessità insita nella natura stessa delle tre fedi. L’esperienza di fede non può rimanere fissata solo nella memoria ma, perché possa anche essere trasmessa alle generazioni future, ha bisogno di essere ricordata negli scritti e nelle pietre: “Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». Ebbe timore e disse: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo». La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel” (Gen. 28,16–19).

Se la Terra Santa in generale è il luogo della rivelazione, ed esprime concretamente il legame tra Dio e l’uomo, Gerusalemme ne è il cuore. È lì che le promesse si sono concentrate. Per questo in essa confluiscono le attese, i desideri e le aspirazioni di tutti i credenti.

Ciò che è accaduto in Gerusalemme, lungo tutta la storia della rivelazione ed in particolare - per noi credenti cristiani - gli eventi della vita di Gesù, ci parla del desiderio di riconciliazione tra Dio e l’uomo e dell’unità del genere umano (basti pensare alla Pentecoste cristiana). Per questo, per tutti i credenti e in particolare per i cristiani, Gerusalemme è il Luogo-simbolo dell’anelito alla riconciliazione e all’unità. Per questo, conflitto e divisioni a Gerusalemme suscitano più sconcerto che in qualsiasi altra parte del mondo.

Brevemente, per molti secoli, soprattutto dopo il periodo crociato, quando Gerusalemme non era più politicamente al centro di alcun contenzioso politico, le contese si limitavano all’ambito religioso. Vi erano contese tra le tre fedi e, in ambito cristiano, tra le diverse chiese cristiane, in particolare tra la chiesa ortodossa e quella cattolica. Non si discuteva di sovranità politica sulla città, ma di sovranità sui Luoghi Santi. La vita della città ruotava intorno ai Luoghi Santi. L’attività religiosa nei Luoghi stabiliva il ritmo di vita della città e il suo respiro.
Gli ebrei cercavano di avere accesso quanto più possibile al Muro Occidentale, che non era garantito facilmente dalle autorità islamiche del tempo. I cristiani, dopo la caduta del regno latino crociato, cercavano di recuperare i Luoghi Santi della redenzione e di ricostruire un tessuto ecclesiale minimale. Allo stesso tempo iniziarono in quel periodo le lotte tra le diverse Chiese per assicurarsi il possesso esclusivo dei Luoghi Santi che man mano venivano recuperati. Lotte che hanno portato all’attuale situazione di divisione in alcuni dei principali Luoghi Santi cristiani. Queste tensioni sono ormai parte del passato e le relazioni sono oggi cordiali. Ma queste situazioni hanno purtroppo lasciato nella memoria della città un’eredità fatta anche di sospetto, di diritti acquisiti, di situazioni obsolete e difficilmente modificabili e che sono sotto gli occhi di ogni pellegrino e visitatore che giunga a Gerusalemme.
I musulmani, sotto il lungo periodo ottomano, hanno avuto facile gioco nella vita religiosa della città e hanno potuto consolidare enormemente il loro legame storico, culturale e religioso con essa. Il loro legame con la città inizia già con il sorgere dell’Islam e si è via via consolidato, soprattutto – come dicevamo – nel periodo turco.
Ma erano le istituzioni religiose ad essere in contenzioso tra loro. Gli abitanti di Gerusalemme, ebrei, cristiani e musulmani, arabi e non, erano accomunati dalla medesima vita nella città e le relazioni tra loro erano determinate dal carattere della persona più che dalle diverse appartenenze religiose. Potevamo avere tensioni o amicizie, incontri o scontri, ma per via delle attitudini personali. La politica non c’entrava più di tanto.

Oggi non è più così. Dal lato loro, le Chiese cristiane sono sempre più vicine tra loro e il contenzioso sui Luoghi Santi è limitato a poche e specifiche situazioni, che però non influiscono molto nella vita reale delle comunità cristiane, oggi tutte mischiate tra loro, per via dei matrimoni misti. I cristiani in quanto cristiani, tuttavia, non sono parte diretta del contenzioso politico sulla città. Questo è appannaggio di ebrei e musulmani. Come dicevamo inizialmente, l’attaccamento ai Luoghi e alla Città Santa legato a profonde motivazioni religiose, trova oggi espressione anche nelle scelte politiche delle autorità dei rispettivi popoli, israeliano e palestinese, che sono per questa ragione fonte di perenni tensioni politiche e sociali.

I palestinesi hanno tutto sommato (se escludiamo le frange più estremiste) una visione abbastanza unitaria su Gerusalemme.
La visione palestinese di Gerusalemme è quella di una città condivisa, capitale dei due stati e delle tre fedi monoteiste. Per i palestinesi è fondamentale avere Gerusalemme come capitale. Essi considerano la Città Vecchia, sede di quasi tutti i Luoghi Santi, un unicum da preservare nella sua integrità. Anche se oggi tutto ciò sembra ormai retaggio del passato e non più attuale, a causa delle recenti iniziative politiche internazionali e dei fatti creati sul territorio che le fanno sembrare superate, essi si richiamano ancora alle varie risoluzioni internazionali dell’ONU, ai principi della Conferenza di Madrid e alle varie iniziative della Lega araba. La dirigenza palestinese continua a rivendicare questi diritti e a chiedere il ritiro israeliano dalla parte araba della città.

Gli israeliani, invece, considerano Gerusalemme la loro capitale, unica e indivisibile e cercano di esprimere questo concetto manifestando sempre più la loro sovranità sull’intera città. I legami tra l’ebraismo e Gerusalemme sono unici e forti, come abbiamo già detto e questo va riconosciuto. Se non possiamo pensare ad una entità palestinese senza Gerusalemme, lo stesso si deve dire per Israele. Dal punto di vista religioso, non c’è ebraismo senza Gerusalemme. Ad ogni modo, vi sono all’interno della dirigenza israeliana differenze di vedute sul futuro della città, in particolare su quale tipo di condivisione di Gerusalemme sia possibile con i palestinesi. Non spetta a noi in questa sede entrare nei vari particolari del contenzioso, che non sono nemmeno di nostra competenza. Queste diverse posizioni, tuttavia, mostrano chiaramente che la situazione attuale è di conflitto.

Israeliani e palestinesi, anche se oggi questo non accade, con la collaborazione di tutti coloro che possono aiutarli, dovrebbero raggiungere un accordo che corrisponda in qualche modo alle loro particolari aspirazioni legittime e ragionevoli e rispetti dei principi di giustizia.

La soluzione di una disputa territoriale da sola, inoltre, non è sufficiente per Gerusalemme, proprio perché Gerusalemme è una realtà senza pari: fa parte del patrimonio di tutto il mondo. E il mondo intero nel passato ha dimostrato di esserne pienamente consapevole quando, ad esempio, attraverso risoluzioni delle Nazioni Unite ha cercato di difendere quel patrimonio. Oggi la comunità internazionale è purtroppo ormai quasi del tutto assente.

Le caratteristiche storiche e materiali della città, nonché le sue caratteristiche religiose e culturali, devono essere preservate; deve esserci uguaglianza di diritti e di trattamento per coloro che appartengono alle comunità delle tre religioni presenti nella Città, nel contesto della libertà delle attività spirituali, culturali, civiche ed economiche; i Luoghi santi situati nella città devono essere preservati e devono essere tutelati i diritti della libertà di religione, di culto e di accesso, sia per i residenti che per i pellegrini, provenienti sia dalla Terra Santa stessa che da altre parti del mondo.
Nonostante ora sembri impossibile che questo si realizzi nel breve periodo, è evidente che prima o poi le due parti dovranno incontrarsi e definire questo tema, che resta l’argomento più importante di tutti. Ed è evidente che le due parti dovranno trovare dei criteri comuni di riferimento per la definizione di un accordo. Ed è su questo che a noi preme, come cristiani, di dire una parola. Non essendoci una rivendicazione politica cristiana sulla città, infatti, corriamo il rischio di non essere presi in considerazione e di non avere voce.

Dal nostro punto di vista, vogliamo insistere sulla necessità di preservare il carattere cristiano della città come uno degli elementi costitutivi della sua configurazione universale. Gerusalemme perderebbe la sua universalità, se non mantenesse visibile e pubblico anche il suo carattere cristiano.
Per “carattere cristiano” si intende la possibilità di pregare pubblicamente in questa città, dove non esiste il pudore europeo. I musulmani pregano pubblicamente. Gli ebrei si fermano il sabato. I cristiani devono poter fare lo stesso secondo le loro differenti tradizioni. Si intende inoltre: sostenere le diverse istituzioni cristiane (scuole, ospedali, ecc.); sostenere la presenza cristiana e il suo naturale sviluppo demografico; preservare i legami naturali tra Gerusalemme e le città vicine. Senza questi legami con le città vicine, ed in particolare con Betlemme, sarebbe difficile sostenere le diverse istituzioni cristiane della città.

L'identità di Gerusalemme, infatti, include un carattere sacro che appartiene non solo ai singoli siti o monumenti, come se questi potessero essere separati gli uni dagli altri o isolati dalle rispettive comunità. Il carattere sacro coinvolge Gerusalemme nella sua interezza, i suoi Luoghi Santi e le sue comunità con le loro scuole, ospedali, attività culturali, sociali ed economiche. Israeliani e Palestinesi, nella ricerca di una soluzione politica del loro conflitto su Gerusalemme, non possono trascurare il fatto che la Città abbia aspetti che vanno ben oltre i loro legittimi interessi nazionali. Pertanto, devono prendere in considerazione questi aspetti nella ricerca e nel raggiungimento di una soluzione politica e territoriale duratura.

In particolare, le due parti dovranno assicurarsi che l’attuale carattere universale di Gerusalemme venga preservato e che Gerusalemme continui ad essere il Luogo dove ebrei, musulmani e cristiani continuano a incrociarsi per le vie della città santa, ciascuno con il suo intento e le sue tradizioni, così unicamente intrecciate le une alle altre. Non basta preservare il carattere storico della città attraverso le sue pietre, ma è anche necessario preservare l’intreccio unico di relazioni di fedi, popoli e culture, senza esclusivismi. La natura di Gerusalemme è includere, non escludere. Questa è anche la sua vocazione profetica, il suo richiamo universale.

Lo ha espresso molto bene Papa Benedetto, nella sua omelia nella Valle di Giosafat, che riporto quasi interamente:
“Riuniti sotto le mura di questa città, sacra ai seguaci delle tre grandi religioni, come possiamo non rivolgere i nostri pensieri alla universale vocazione di Gerusalemme? Annunciata dai profeti, questa vocazione appare anche come un fatto indiscutibile, una realtà irrevocabile fondata nella storia complessa di questa città e del suo popolo. Ebrei, Musulmani e Cristiani qualificano insieme questa città come loro patria spirituale. Quanto bisogna ancora fare per renderla veramente una "città della pace" per tutti i popoli, dove tutti possono venire in pellegrinaggio alla ricerca di Dio, e per ascoltarne la voce, “una voce che parla di pace”! ( cf. Sl 85,8).

Gerusalemme in realtà è sempre stata una città nelle cui vie risuonano lingue diverse, le cui pietre sono calpestate da popoli di ogni razza e lingua, le cui mura sono un simbolo della provvida cura di Dio per l’intera famiglia umana. Come un microcosmo del nostro mondo globalizzato, questa Città, se deve vivere la sua vocazione universale, deve essere un luogo che insegna l'universalità, il rispetto per gli altri, il dialogo e la vicendevole comprensione; un luogo dove il pregiudizio, l’ignoranza e la paura che li alimenta, siano superati dall’onestà, dall’integrità e dalla ricerca della pace. Non dovrebbe esservi posto tra queste mura per la chiusura, la discriminazione, la violenza e l’ingiustizia. I credenti in un Dio di misericordia – si qualifichino essi Ebrei, Cristiani o Musulmani –, devono essere i primi a promuovere questa cultura della riconciliazione e della pace, per quanto faticoso e lento possa essere il processo e gravoso il peso dei ricordi passati”.

Sempre nella stessa omelia, papa Benedetto aggiungeva:
“Questa è la speranza, questa la visione che spinge tutti coloro che amano questa Gerusalemme terrestre a vederla come una profezia e una promessa di quella universale riconciliazione e pace che Dio desidera per tutta l’umana famiglia. Purtroppo, sotto le mura di questa stessa Città, noi siamo anche portati a considerare quanto lontano sia il nostro mondo dal compimento di quella profezia e promessa. In questa Santa Città dove la vita ha sconfitto la morte, dove lo Spirito è stato infuso come primo frutto della nuova creazione, la speranza continua a combattere la disperazione, la frustrazione e il cinismo, mentre la pace, che è dono e chiamata di Dio, continua ad essere minacciata dall’egoismo, dal conflitto, dalla divisione e dal peso delle passate offese. Per questa ragione, la comunità cristiana in questa Città che ha visto la risurrezione di Cristo e l’effusione dello Spirito deve fare tutto il possibile per conservare la speranza donata dal Vangelo, tenendo in gran conto il pegno della vittoria definitiva di Cristo sul peccato e sulla morte, testimoniando la forza del perdono e manifestando la natura più profonda della Chiesa quale segno e sacramento di una umanità riconciliata, rinnovata e resa una in Cristo, il nuovo Adamo” (Papa Benedetto, Omelia nella Valle di Giosafat, 12 maggio 2009).

Ogni chiusura, dunque, vissuta a Gerusalemme è una ferita che si provoca alla città e a noi stessi, in una osmosi quasi immediata. Ma è anche una ferita per la vita del mondo, di cui Gerusalemme è il cuore.

Non è una città facile, Gerusalemme. È una madre che educa e fa crescere, come una maestra esigente; che ci invita ad andare oltre le belle idee, le facili parole. La nostra è una fede incarnata, il nostro Gesù è un Uomo che qui è nato in un preciso momento storico, è vissuto, ha chiamato i suoi amici a condividere la propria vita, ha riso e pianto, ha percorso sentieri e strade. Se si dimentica l’Incarnazione, non si entra nell’anima di questa città. La si idealizza e si finisce per patirne scandalo.

Se la città non teme di mostrarsi a noi con le sue contraddizioni, anche noi dobbiamo conoscere, accettare e vincere le nostre, per renderci liberi di aderire al sogno che essa ci propone e che sta scritto nel suo nome: la pace. A volte accettare l’amore, accettare la pace, saper ricevere un dono è più difficile che darlo. In questa “nudità”, o se vogliamo, nell’accettazione sincera di ogni nostra contraddizione, sta il segreto per vivere in empatia con lo spirito per Gerusalemme, lo star bene, il sentirsi amati da questa straordinaria città. “Il Signore scriverà sul libro dei popoli: Là costui è nato. E danzando canteranno: In te le mie radici” (Sl 87).

Infine, non si può stare a Gerusalemme, senza pregare. La preghiera è ciò che accomuna tutti i suoi abitanti e nella quale tutti si ritrovano. Ecco un’attività dello spirito che Gerusalemme rende connaturale. Sarà la bellezza della città che tiene fissa la mente al Creatore della bellezza; sarà che i Luoghi santi sono davvero tanti in un perimetro che si percorre comodamente in una sola giornata, sarà il richiamo della fede di tanta gente - soprattutto la fede dei piccoli e dei poveri -, o la concentrazione di tanti religiosi nella varietà delle loro appartenenze, nel folclore dei loro abiti. Sarà, soprattutto, lo scoprire che la preghiera non è caratteristica dei cristiani, ma dell’uomo, e che gli ebrei pregano senza condizionamenti di sorta per le strade, e i musulmani fanno lo stesso nei loro negozi lungo il suk; e che la suora che sgrana il rosario non prega con più intensità dell’ebreo che mormora camminando avvolto nel tallit, o del musulmano che fa scorrere il suo masbaha ricordando i nomi e le virtù di Allah, seduto o camminando per strada. Sarà perché la sirena che annuncia lo Shabbat diventa un suono atteso, sacro, e la città si trasforma quietandosi di ogni affanno umano; o perché il Muezzin interrompe la notte con il suo primo richiamo; o perché il suono familiare delle campane la domenica mattina arriva portato dal vento a ricordare il nostro giorno sacro: saranno tutte queste cose insieme, ma vien facile pregare a Gerusalemme. È una corrente che si segue, che ci assorbe, che ci fa andare al passo con la città delle fedi, la città di Dio. Allora pregare diventa entrare in relazione sì con il Signore, ma anche con Gerusalemme e sentire gratitudine per questa voglia di preghiera che essa ci regala.

Città dell’accoglienza e della tolleranza, Gerusalemme sembra voluta apposta per essere un luogo di libertà dove questo atto così intimo, così personale come la preghiera, diventa anche atto pubblico, condivisibile e partecipato con gli altri. Certo è che la devozione della povera gente, l’intensità della loro preghiera, le lacrime che segnano i volti di tante persone nella basilica della Risurrezione, sono per molti un incontro vivo e vivificante con la bellezza della preghiera.
Gerusalemme è anche tutto questo. Sarebbe ingiusto limitarsi, dunque, alla descrizione dei contenziosi religiosi, politici e sociali, senza dire cosa accomuna tutti in questa città complicata.

Occasione di incontro e dialogo

Passiamo ora ad un altro piano della vita della città. Abbiamo finora parlato di contenziosi, di difficoltà politiche e religiose, di tensioni di diverso genere. Gerusalemme, dunque, la città dalla vocazione universale alla pace e all’incontro tra i popoli, sembrerebbe sia l’emblema del fallimento, il simbolo dello scontro tra le civilizzazioni e le culture.

Ma non è così.

Vi è il piano istituzionale, oggettivamente problematico. Ma vi è poi il piano della vita, dei semplici cittadini, religiosi e non, delle tante persone e associazioni che, nonostante tutto, cercano insieme di mostrare il loro amore e attaccamento alla Città Santa, attraverso iniziative comuni o semplicemente attraverso semplici relazioni di amicizia, che superano i rigidi confini delle appartenenze identitarie e religiose.
Non è questo il momento dei grandi gesti, non è il tempo nel quale attendere dalle istituzioni religiose e politiche capacità di visione e di profezia. Le istituzioni arriveranno, prima o poi, ma nel frattempo bisogna lavorare ed operare laddove le persone sono disposte a mettersi in gioco, a spendersi per ripulire il volto sfigurato della Città Santa attraverso le loro iniziative di dialogo e di incontro, di preghiera e di condivisione.
Vi sono iniziative di carattere più civile e altre di carattere religioso, tutte accomunate dal desiderio di dare espressione concreta all’incontro e al dialogo. Ne citerò solo alcune, a mo’ di esempio.
Tra le iniziative di carattere civile penso ad esempio al Jerusalem Intercultural Center. Composto da israeliani e palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani, si occupa di migliorare la vita degli abitanti della città, a prescindere dalle loro appartenenze. Interviene nelle emergenze, quando ci sono, coinvolgendo la popolazione, facilitando incontri, creando volontariato. Insegna l’arabo agli israeliani, soprattutto agli operatori e ai responsabili di uffici pubblici, perché possano meglio comprendere e interagire con il pubblico arabo a tutti i livelli. Cercano di colmare una lacuna spaventosa nella formazione dei ragazzi, cercando di fare conoscere le tradizioni religiose di ciascuna comunità religiosa. Organizzano ovunque visite, incontri, conferenze, concerti. Gerusalemme patrimonio di tutti, non deve essere solo uno slogan, ma espressione concreta nella vita della città. Nonostante i suoi membri abbiano visioni politiche differenti, si ritrovano uniti nel desiderio di fare qualcosa di concreto per la vita della città. Riconoscono di appartenersi l’un l’altro nell’amore a Gerusalemme. La città che essi amano non li ha divisi, dunque, ma al contrario li ha fatti incontrare, apprezzare e anche amare l’un l’altro. In un recente incontro, ad esempio, organizzato dal Centro, ho assistito all’esibizione di un gruppo di giovani cantori israeliani, ebrei religiosi, che hanno aperto la conferenza cantando, in arabo, parti della liturgia cristiana latina, per un pubblico di ebrei e musulmani. Solo a Gerusalemme può accadere questo.
Si devono inoltre ricordare le dodici scuole cristiane della città. È uno dei contributi significativi che la comunità cristiana offre ai suoi concittadini. Sono quasi diecimila gli studenti che passano nelle nostre scuole, in prevalenza musulmani e cristiani, e ai quali è data la possibilità di crescere, studiare e formarsi insieme durante gli importanti anni dell’età evolutiva; è questo il nostro modo di contribuire alla vocazione della città all’incontro. Può sembrare banale, ma laddove tutto porta a creare distinzioni tra le appartenenze, dove i confini identitari sono così forti, studiare e vivere insieme, gomito a gomito, è un modo concreto per educare al rispetto delle differenze.
Se le istituzioni tendono a vedere solo la propria narrativa religiosa e a negare quella altrui, se cioè non si vogliono riconoscere le differenze, il semplice stare insieme a scuola, ciascuno con la sua identità, diventa un gesto significativo. In questo modo, le nostre scuole educano indirettamente ad accogliersi e a rispettarsi reciprocamente ciascuno nella sua identità. Non siamo obbligati a condividere le opinioni, ma possiamo rispettarle. L’amicizia non è costretta dentro i confini della propria identità, ma la supera. È libera.

Le nostre scuole accolgono prevalentemente cristiani e musulmani per motivi linguistici, perché entrambi parlano arabo. Ma vi sono anche scuole bilingue, come la rete di Hand-in-Hand, fondata da un musulmano e un ebreo insieme, dove gli alunni studiano in arabo ed ebraico, con doppio insegnante in ogni classe. E hanno problemi di spazi, perché le richieste superano l’offerta. In questo caso la caratteristica di queste scuole non consiste solo nel permettere che i ragazzi vivano insieme da studenti, ma nel renderli positivamente coscienti dell’esistenza dell’altro, delle sue diversità, educandoli all’accoglienza consapevole e al rispetto.
Vi sono scuole che hanno un linguaggio universale, come le scuole di musica. Insegnanti e studenti ebrei, cristiani e musulmani, si ritrovano per imparare a suonare uno strumento, ma anche a suonare insieme. Fra queste scuole, vi è il Magnificat della Custodia di Terra Santa.

Vi sono poi innumerevoli iniziative di formazione e di informazione organizzate da varie associazioni pubbliche e private. Si incontrano continuamente gruppi di scolaresche ebraiche che incontrano religiosi cristiani e musulmani e visitano chiese e moschee. È bello vedere scolaresche musulmane che fanno visita ai Luoghi Santi cristiani e sono educate a comprendere come quei luoghi siano anche parte della loro identità e della storia della loro città. Ma si vedono anche gruppi di militari israeliani, di pensionati, di imprese e associazioni varie che sono mossi dalla curiosità di conoscere, che non vogliono leggere un libro sui cristiani, sugli ebrei o sui musulmani, ma vogliono incontrarli e ascoltarli.

Vi sono poi altre iniziative di carattere diverso, a me personalmente assai vicine. Ci sono gruppi di giovani e meno giovani che non vogliono limitarsi ad incontri di carattere sociale, storico e culturale. Vogliono capire l’uno le ragioni dell’altro e la sua fede. Sono gruppi che non fanno pubblicità e di cui non si sa nulla pubblicamente e forse per molto tempo sarà ancora così, ma sono numerosi e crescono continuamente.
Sono gruppi che si dedicano alla lettura dei testi sacri. Ebrei israeliani che leggono insieme ai cristiani arabi l’Antico Testamento e lo commentano insieme. Cominciando dai testi meno impegnativi, fino ad arrivare ai testi che parlano di terra, eredità, promesse, alleanza, le cui interpretazioni sono evidentemente differenti e che hanno anche un carattere politico evidente. Ma si legge insieme anche il Nuovo Testamento, si parla di Gesù, si condivide la conoscenza che si ha di lui.
Ho fatto personalmente esperienza di come questi incontri creino legami di amicizia forti e profondi: non solo non creano tensioni e incomprensioni ma, al contrario, aiutano a conoscere se stessi più a fondo. Le domande di amici ebrei sulla figura di Gesù, sul senso della morte e risurrezione, sulla sua personalità, mi hanno aiutato ad approfondire il mio rapporto con Lui, mi hanno fatto riappropriare in maniera nuova della mia fede cristiana.

Vi sono poi altri gruppi, ancora più riservati, sempre di carattere religioso, dove ebrei, cristiani e musulmani, provenienti da esperienze forti e anche con ruoli pubblici non indifferenti, decidono di incontrarsi privatamente per spiegare le loro scelte, ma anche per ascoltare quelle altrui. Sono persone con ruoli anche pubblici che hanno scelto di sfidare le paure e i pregiudizi, per cercare di capire e di conoscere. Si tratta di figure cristiane pubbliche, di rabbini provenienti anche dagli insediamenti nei Territori, di Iman importanti. Non si accontentano della narrativa sugli altri ascoltata dai propri portavoce, ma vogliono attingere direttamente da testimoni della “controparte”. Dopo le paure iniziali, dopo il disagio nell’ascoltare ragioni non condivise, si impara anche a conoscere la logica e la coerenza delle rispettive scelte, senza necessariamente condividerle. E ci si stupisce della facilità a fraternizzare.

Sono solo alcuni degli esempi di vita esistenti in questa città particolare. Sotto la superficie di contenziosi e divisioni, dei vari Statu-quo della città, scorre un fiume di umanità bella, di uomini e donne che si mettono in gioco per dare espressione al desiderio radicato nel loro cuore di amore a Dio. Persone che desiderano incontrare il fratello e la sorella che vive accanto a loro e che rifiutano di credere sia un estraneo o addirittura un nemico. Non si accontentano di vivere di stereotipi, ma si pongono domande e cercano risposte direttamente e sinceramente.

Non dobbiamo generalizzare, certo. Non possiamo negare l’esistente tendenza alla polarizzazione e alla divisione, ma abbiamo anche il dovere di riconoscere le fonti di luce che illuminano questa città. Basta una piccola luce per eliminare l’oscurità. Nonostante tutto, Gerusalemme è ancora ricca di innumerevoli fonti di luce, che rendono questa città ancora luminosa.

È lì che ancora oggi si fonda la nostra speranza. E in questo senso Gerusalemme è davvero modello di convivenza e di dialogo. Solo lo spettatore superficiale si limiterà alle solite considerazioni delle difficoltà e delle divisioni della città che, pur esistenti, non esprimono tuttavia l’intera verità. L’osservatore attento saprà riconoscere, sotto la superficie complessa della città, un mondo di relazioni meravigliose e ricche. Gerusalemme, oggi, ci disvela le nostre complessità personali, sociali, comunitarie di vario genere, le nostre contraddizioni, i nostri sogni, utopia possibile per un futuro diverso, e si propone ancora e sempre come Città di pace.

Questa Città non è altro che un microcosmo, un piccolo scrigno nel quale attese e aspirazioni, pregiudizi e curiosità, inimicizie e fraternizzazione, sospetti e paure, odio e amore, dialogo e sospetto, si mischiano insieme creando una miscela unica e complessa.
In fondo, se ci pensiamo bene, la vita della città non è poi così diversa dalla vita del mondo. Attese, paure, amore, odio e qualsiasi altro sentimento si trovano nel cuore di ogni uomo e in tutte le società. Qui è solo tutto più concentrato, tutto diventa tangibile e trova espressione immediatamente percepibile.

Gerusalemme è lo specchio di ciò che siamo realmente, ci rimanda a fare i conti con il nostro cuore e ad appellarci al Dio misericordioso. Come uno specchio, appunto, che riflette la nostra immagine e ci aiuta, nella sincerità verso noi stessi, a perdonarci e a ricominciare ogni mattino, ad amarci per essere capaci di amare gli altri, tutti gli altri perché in tutti, in qualche infinitesimo modo, siamo anche noi.

+ Pizzaballa




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Fonte: https://www.lpj.org/it/apostolic-administrator/gerusalemme-luogo-dell-anima-una-madre-che-educa-e-fa-crescere.html


giovedì 9 dicembre 2021

La croce di Gerusalemme, un enigma millenario: Cinque ferite nel simbolo della Città Santa, di Mordechay Lewy



La croce di Gerusalemme, un enigma millenario
Cinque ferite nel simbolo della Città Santa


di Mordechay Lewy
Ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede



 


Lo sguardo di quanti hanno potuto vedere gli altari delle grandi messe in occasione della visita del Papa in Israele è stato immancabilmente attratto dalla croce di Gerusalemme. Questo stemma sembra essere onnipresente. Da secoli lo si trova come emblema della Custodia francescana di Terra Santa. È anche lo stemma dei Cavalieri del Santo Sepolcro di Gerusalemme. E pure il patriarcato latino di Gerusalemme utilizza questo simbolo.
Inoltre, la croce di Gerusalemme è una componente fissa della bandiera nazionale della Georgia, nonché degli stemmi dell'isola di Portorico e della città di Aix-en-Provence. Sia l'associazione cattolica Deutscher Verein vom Heiligen Lande sia l'associazione Evangelischer Jerusalemverein presso l'opera missionaria di Berlino la utilizzano.
È un simbolo che può essere usato a piacimento? Che significato ha e come è nato? La croce di Gerusalemme può essere facilmente riconosciuta dagli elementi che la compongono: una croce greca (con i bracci di lunghezza uguale) croce potenziata o croce maltese (croce patente), circondata da quattro piccole croci, una tra ciascuno dei quattro bracci. Con i suoi colori, in araldica questa croce rappresenta un'eccezione: oro su argento, due colori metallici che di solito non possono sovrapporsi.
Per il mio studio l'attributo importante però non è né il colore né la forma della croce. È invece il numero delle croci, che sono cinque (4+1), a dare a questo simbolo il suo significato.
La forma più antica della croce gerosolimitana appare nell'arte protocristiana. Già Franz Dölger ha rimandato agli stampi per le ostie giacobitici e nestoriani, che ha attribuito al V secolo. Queste prime forme di croce sono dette croci cosmiche. Sono prive di un riferimento diretto a Gerusalemme.
Con la cosiddetta chiave di san Servatio, sul cui ingegno è stata realizzata una croce gerosolimitana evoluta, ci troviamo però dinanzi a un enigma, da quando Viktor Elbern l'ha ricollegata a Gerusalemme. Questo reliquiario è stato realizzato nelle botteghe palatine di Aquisgrana nel IX secolo.
Tenendo conto della pretesa di Carlo Magno di essere il nuovo re David, il reliquiario potrebbe essere chiamato clavis David. Quest'opera d'arte, però, nel suo significato non si ricollega a Gerusalemme soltanto per il riferimento a re David. Gli annali dell'impero, infatti, parlano della legazione che Carlo ha inviato a Gerusalemme, dove il Patriarca le ha offerto dei doni. Tra questi vi era la chiave della città di Gerusalemme.
Ma questo riferimento ha avuto anche delle conseguenze sulla diffusione della croce gerosolimitana? Precisiamolo subito: no, non ha avuto conseguenze. Deve passare mezzo millennio prima che si possa nuovamente documentare una croce di Gerusalemme. Contrariamente all'immaginario popolare o alle rappresentazioni successive romantico-storicizzanti, l'intera epoca delle crociate fino al 1291 non conobbe neppure una croce di Gerusalemme.
Quella utilizzata dal regno di Gerusalemme era la "vera" croce, che aveva la forma di una croce patriarcale. La croce gerosolimitana riapparve all'inizio del XIV secolo in due contesti diversi. La prima apparve in un contesto escatologico, nel Giudizio Universale di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, del 1300. Qui, due angeli, a capo della Militia Christi celeste, reggono una bandiera con la croce di Gerusalemme.
Anche la Militia Christi dell'altare di Ghent, realizzato dai fratelli van Eyck nel 1426-1432, segue una bandiera dei cavalieri con la croce gerosolimitana.
Che questo riveli la speranza di riconquistare Gerusalemme appare evidente grazie a una miniatura presente in un manoscritto sulla crocifissione di Marino Sanudo, il Liber secretorum fidelium Crucis. Qui la croce di Gerusalemme appare su una nave che trasporta i crociati. Nel 1332 questo codice (Bruxelles kb, ms. 9404-05) venne donato dal suo autore al re francese Filippo vi, nella speranza che si ponesse a capo della crociata.
Il secondo contesto è numismatico-politico. La croce gerosolimitana è impressa su una moneta cipriota del reggente e usurpatore Amalrico di Lusignano, che negli anni 1306-1310 s'impossessò di Cipro. Adottando la croce di Gerusalemme, già approvata teologicamente, voleva contrastare le pretese angioine alla corona di Gerusalemme.
Per mancanza di spazio, possiamo solo accennare a questo contesto politico. La croce di Gerusalemme divenne un ambito attributo araldico di tutte le pretese al trono di Gerusalemme, reali e fittizie, dopo che nel 1291 i crociati persero anche l'ultimo avamposto. I casati di Lusignano a Cipro e Angiò a Napoli si contendevano la corona di Gerusalemme. In seguito, tutte le pretese delle dinastie europee dal XV al XX secolo ebbero solo carattere fittizio: Aragona, Valois, Venezia, Savoia, Lorena, Asburgo, Borboni di Spagna. Di conseguenza questi casati vantavano sul loro stemma la croce di Gerusalemme.
A noi, però, interessa soprattutto l'origine e il significato di questo simbolo enigmatico. Se dall'epoca carolingia manca una certa continuità, come si può spiegare l'apparizione della croce di Gerusalemme, soprattutto dopo la fine degli stati crociati? Le spiegazioni fornite finora vanno dall'adozione dell'acronimo ih i (IHerusalem e Iesus), allo sviluppo ulteriore della croce patriarcale fino alle tre croci sul Golgota. Per spiegare le quattro piccole croci sono stati indicati i diversi principati crociati o le diverse nazioni che hanno preso parte alle crociate. Recentemente, Giuseppe Ligati ha suggerito di far derivare la croce di Gerusalemme dai sigilli dell'imperatore latino di Costantinopoli.
L'enigmatica riapparizione della croce gerosolimitana nel XIV secolo esige però una nuova interpretazione, che vada oltre i tentativi fatti finora per trovare una spiegazione. Io proporrei di servirci dello spunto della storia dei simboli dato da Michel Pastoureau, e soprattutto di prestare attenzione a un fenomeno di cui si è tenuto poco conto. Si tratta del fenomeno dei simboli seminati, semée, e del loro significato araldico. Recentemente, Michel Pastoureau ha fatto notare che nella descrizione medievale delle immagini i simboli sparsi in modo esteso come i gigli, le stelle o le croci rappresentano la consistenza infinita del celeste-divino. La domanda è quindi: come veniva rappresentata in araldica l'infinità, tanto più che nelle prime descrizioni araldiche (blasoni) erano stati utilizzati a tal fine termini come semy, semée o crusellier? Pastoureau si è domandato anche come era stato possibile ridurre questi simboli seminati a un numero fisso e, così facendo, creare un emblema araldico universalmente riconosciuto.
Pastoureau ha analizzato l'apparizione del giglio al servizio della casa reale francese a partire dagli inizi dell'araldica nel XII secolo. Nel sigillo del 1211 il principe Luigi, in seguito divenuto re Luigi viii, è rappresentato come cavaliere con uno scudo con gigli seminati. L'infinità viene rappresentata da gigli incompleti al margine dello scudo.
All'epoca, il giglio era considerato simbolo di Maria, patrona di Francia. Ma nel corso del XIV secolo, all'esigenza di legittimazione dell'emergente dinastia dei Valois, a partire dal 1328, si risponde propagando l'origine divina dei gigli. Quando nel 1340 il re inglese Edoardo iii, nella foga della guerra dei cent'anni, fa valere la sua pretesa alla corona francese, divide in quattro il suo stemma e così su due partizioni appaiono i gigli seminati rivendicati dai francesi. Edoardo non eliminò i gigli dal suo stemma nemmeno dopo aver rinunciato alla corona francese nel 1360. Come contromossa, il re di Francia Carlo v, a partire dal 1365 circa, cercò di ridurre a tre i numerosi gigli del suo stemma. Si presume che volesse in tal modo contrastare l'utilizzo dei gigli da parte degli inglesi. Questa riduzione a tre venne motivata con il diffondersi della Trinità quale patrona della corona francese.
"(Le roi de France) porte les armes des trois fleurs de lys en signe de la benoîte Trinité"; così si espresse nel 1371-72 il traduttore francese Raoul de Presle nella sua prefazione alla Civitas Dei di sant'Agostino. Con questa motivazione teologica, che avvicinava la corona alla quasi divinità, non si ottenne soltanto una particolare legittimazione della dinastia francese dei Valois, ma venne anche approvata e stabilita in araldica la limitazione dello stemma a tre gigli.
Che cosa si può imparare da questo modello esplicativo del seminato ridotto di Pastoureau? Sulla base di un inventario delle rappresentazioni visive, si potrebbe seguire, dal punto di vista della storia dei simboli, lo sviluppo delle croci seminate ed esaminare quando, come emblema araldico, è stata ridotta la loro infinitezza e con quante croci è stato catalogato in araldica.
Forse, come per la Trinità, anche per il numero fissato delle croci si può trovare una motivazione teologica che lo legittimi. Non nel XII, ma solo nel XIII secolo troviamo le croci seminate nel contesto araldico, e più di frequente come stemma del re di Gerusalemme, Giovanni di Brienne (1210-1225).
La corona di Gerusalemme nel 1277 venne ceduta da una pretendente al trono, Maria di Antiochia, a Carlo i d'Angiò, che desiderava espandere a oriente il suo regno mediterraneo di Sicilia e di Napoli. Su una moneta da lui coniata quando s'impossessò della corona di Gerusalemme, appare nuovamente una croce seminata.
Ancora nel 1317, questa croce seminata venne utilizzata in un dipinto di Simone Martini per ricordare la pretesa angioina alla corona di Gerusalemme. La tavola rappresenta san Luigi, vescovo di Tolosa e fratello maggiore di Roberto d'Angiò, nell'atto di consegnare al fratello la corona del Regno di Napoli e di Gerusalemme. Lo stemma appare sia come fibbia sul mantello di Luigi, sia sulla parte posteriore dell'abito di Roberto.
Nel XIII secolo, dunque, la croce, a partire da Giovanni di Brienne - non sono escluse influenze bizantine - sembra essere lo stemma di coloro che reclamano il trono di Gerusalemme. Appare soprattutto nel regno angioino di Napoli, che così contendeva la corona di Gerusalemme alla dinastia cipriota dei Lusignano. Nel XIV secolo, e anche dopo, continua a riapparire nel contesto storico del regno di Gerusalemme. Si è pertanto consolidata l'erronea convinzione che i crociati a Gerusalemme avessero come stemma la croce di Gerusalemme seminata o piena.
Contemporaneamente, all'inizio del XIV secolo, nel contesto sia teologico sia politico la croce seminata subì una riduzione e venne limitata a quattro piccole croci attorno alla croce greca. Come si giunse a ciò? Il Giudizio universale di Giotto (1302-1305) e la moneta cipriota (1306-1310) fanno risalire la croce di Gerusalemme più o meno allo stesso periodo. Tuttavia, il contesto teologico sembra essere quello più importante.
A Cipro invece fu l'obbligo politico di minare le pretese degli Angiò di Napoli su Gerusalemme a fare accettare la croce di Gerusalemme con le croci ridotte a cinque. Nella motivazione teologica degli atti di culto, il simbolismo dei numeri svolge un ruolo importante.
Dall'abitudine del sacerdote di segnarsi cinque volte, dinanzi all'ostia consacrata, pronunciando le parole hostiam puram, hostiam sanctam, hostiam immaculatam, panem sanctum vitae aeternae, et calicem salutis perpetuae, all'inizio del XII secolo Roberto Tuitiense, nel suo De divinis Officiis (Patrologia Latina, 170, 43d-44a), così interpreta la consuetudine di mostrare l'ostia consacrata come un modo per ricordare le cinque piaghe fisiche di Cristo, cum intra verba praedicta, vel quinque crucis signacula, quinque dilecti sui plagas (...) fida tenet et contemplatur memoria.
Nel suo De sacro altaris mysticis (Patrologia Latina, 217, 887) Papa Innocenzo iii, conferma questo quintuplice segno della croce come memoria delle cinque piaghe. San Tommaso d'Aquino, verso la fine della sua vita, nel 1274, scrive di questo atto nella Summa Theologiae: Unde ad repraesentandum quinque plagas, fit quarto quintuplex crucesignatio super illa verba, hostiam puram. Nel XII secolo, quando l'araldica era ancora poco sviluppata, questa interpretazione simbolica delle cinque croci non poteva essere applicata alla croce di Gerusalemme, a quell'epoca caduta nell'oblio. Fu lasciato alle generazioni successive il compito di riprendere visivamente questa interpretazione.
Intorno al 1340, nella Züricher Wappenrolle (stemmario di Zurigo) appare un'indicazione eloquente. Lo stemma del regno di Gerusalemme è riportato come croce potenziata, sulla quale cinque chiodi (piaghe) sono disegnate in rosso.
Per quanto mi è noto, è questo il primo collegamento figurato esplicito dello stemma di Gerusalemme con la configurazione delle cinque piaghe. Da questo collegamento si potevano anche far derivare le quattro piccole croci tra i bracci. Un ulteriore sviluppo della riduzione teologicamente motivata della croce di Gerusalemme a cinque croci si osserva nel XV secolo, sulle vetrate di un convento francescano in Inghilterra (Coldingham), conservate nel Cloisters Museum di New York.
Su queste vetrate, le cinque piaghe di Gesù sono rappresentate come concetto araldico sviluppato, in una configurazione 1+4. Unendo le due configurazioni (lo stemmario di Zurigo e le vetrate di Coldingham), appare visivamente la motivazione teologica della configurazione della croce di Gerusalemme. A questo bisogna aggiungere che anche la rappresentazione figurata dell'Arma Christi nei primi decenni del XIV secolo è stata racchiusa in un concetto araldico.
Rispecchiava lo spirito dei tempi. Va notato che nello stesso periodo sia lo stemmario di Zurigo sia l'Arma Christi prevedono un solo chiodo per entrambe le gambe, poiché nelle raffigurazioni occidentali questa posizione delle gambe nella crocifissione si è imposta a partire dall'inizio del XIV secolo.
L'idea diffusa dai francescani secondo cui le cinque stigmate di Francesco corrispondevano alle cinque piaghe di Gesù venne trasmessa visivamente soprattutto attraverso opere commissionate ai pittori italiani più abili. La divulgazione, da parte dei francescani, della simbologia delle cinque piaghe, acquistò un ulteriore significato quando questo Ordine poté riportare la presenza latina in Terra Santa. Nel 1342, Papa Clemente vi affidò loro la responsabilità dell'assistenza ai pellegrini latini. Fu questo uno stimolo in più per reclamare la croce di Gerusalemme come croce delle cinque piaghe di Gesù (e quindi indirettamente delle cinque stigmate).
Nel XV secolo, i francescani della Custodia di Terra Santa iniziarono a monopolizzare la croce di Gerusalemme per il pellegrinaggio dall'Europa. L'Ordine Equestre del Santo Sepolcro, da loro promosso, araldicamente veniva onorato con il conferimento della croce di Gerusalemme. La prima testimonianza dell'utilizzo della croce di Gerusalemme come simbolo che identificava chi si era recato in pellegrinaggio a Gerusalemme è un epitaffio di Heinrich Ketzel, di Norimberga, che compì il pellegrinaggio nel 1389. L'epitaffio venne realizzato solo nel 1454 ed è ancora oggi visibile sul muro esterno della chiesa di San Sebaldo a Norimberga.
All'inizio fu importante per i francescani avere la prerogativa di conferire il titolo di cavaliere del Santo Sepolcro. Questa prerogativa venne loro confermata da una lettera del Papa nel 1525. Il simbolo veniva cucito sull'abito dei pellegrini. I membri delle fraternità gerosolimitane esibivano con orgoglio le collane con la croce in metallo che riportavano da Gerusalemme.
A partire dal XVII secolo, la croce gerosolimitana venne addirittura tatuata sulla pelle dei pellegrini, affinché al ritorno in patria potessero portare con sé per tutta la vita il ricordo del pellegrinaggio.
Accanto al ramo di palma utilizzato a partire dall'inizio del Medioevo (palmario era sinonimo di pellegrino a Gerusalemme) nel XVI-XVII secolo la croce gerosolimitana divenne l'attributo principale del pellegrinaggio in Terra Santa.
Nel XVI secolo, i francescani in Terra Santa si appropriarono della croce di Gerusalemme per farne un uso ufficiale. Nel sigillo ovale del 1581 del Guardiano del Monte Sion a Gerusalemme, nella punta superiore (a sinistra), si riconosce la croce di Gerusalemme. La croce gerosolimitana venne utilizzata anche nella sua insegna notarile nel 1599 (a destra).
Nel XVII secolo, grazie allo studioso francescano Francesco Quaresmius venne promossa in modo particolare la devozione delle cinque piaghe di Gesù. Francesco Quaresmius evidenziò l'unicità del suo Ordine, sottolineando il collegamento tra le cinque piaghe di Gesù e le cinque stigmate del fondatore dell'Ordine, san Francesco. Quaresmius introdusse un'importante aggiunta nello stemma della Custodia di Terra Santa: nello stemma apparvero le braccia incrociate di Gesù e di Francesco. Questo emblema è scolpito ancora oggi sugli immobili di proprietà della Custodia a Gerusalemme e nei suoi dintorni.
Il predominio dei francescani nell'ambito dei pellegrinaggi a Gerusalemme fu interrotto nel 1847 con la disposizione pontificia d'istituire un patriarcato latino a Gerusalemme. I francescani persero anche la prerogativa del conferimento del cavalierato. Nel 1868 l'ordine equestre venne riorganizzato e riconosciuto dal Papa. La sua massima istanza, il Gran Maestro, un cardinale nominato dal Papa e residente a Roma, nomina anche i cavalieri. Il simbolo della croce di Gerusalemme diffuso dai francescani, ha nel frattempo sviluppato una vita propria. Il merito di averne fatto lo stemma dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro, però, in realtà dovrebbe essere attribuito alla Custodia di Terra Santa.




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domenica 4 aprile 2021

Pasqua 2021: omelia di S. B. Mons. Pierbattista Pizzaballa

 


Domenica di Pasqua 2021

Fratelli e sorelle carissimi,

Cristo è risorto, alleluia!

Eccoci ancora una volta riuniti qui per concludere questa nostra Settimana di preghiera e celebrazione. Siamo giunti di nuovo qui al Sepolcro per annunciare con forza e con gioia che Cristo è risorto, che la morte non ha più potere su di Lui e su ciascuno di noi.

La celebrazione è iniziata con il canto dell’antifona: “sono risorto e sono ancora con voi, alleluia”. È il grido di gioia della Chiesa dopo i giorni di dolore e sofferenza della passione, morte e sepoltura del Signore. Queste parole, tratte dal Salmo 139, sono poste sulle labbra di Gesù, uscito glorioso da questa tomba dopo che il Padre lo ha risuscitato dalla morte. Ma sono anche parole che possono essere ripetute da ognuno di noi riuniti in questo che è il più Santo dei Luoghi, perché in Cristo Risorto siamo rinati dal peccato e dalla morte alla grazia e alla vita, e perché sappiamo che Cristo è risorto dai morti e non morirà mai più. La morte non ha più potere su di Lui (Rom 6,9). In questo giorno fatto dal Signore (Sl 118,24), il primo giorno della settimana, ci siamo riuniti per testimoniare l'avvenimento della Risurrezione e per proclamare che Cristo Risorto rimarrà sempre con noi.

Il Vangelo di Pasqua è ricco di verbi significativi, ma uno prevale su tutti: vedere. È tutto un “vedere” a Pasqua... Maria vide la pietra ribaltata (20,1), Pietro vide i teli (20,5), Giovanni vide la tomba vuota.... (20,4). Non trovano il corpo, ma vedono... E il vedere si approfondisce sempre più fino a gridare: “Abbiamo visto il Signore!” (20,25).

“E vide e credette ...” (20,8): credere è un modo di vedere in profondità, di riconoscere che l’assenza del corpo di Gesù non parla di un furto, ma di una vita nuova che è accaduta; Giovanni vede un vuoto, e crede che questo vuoto è in realtà una pienezza.

Ed è ciò che, oggi, ciascuno di noi è chiamato a fare: entrare nei luoghi della morte, e stare lì, sul limite del sepolcro, per vedere e per credere che nonostante la morte continui a fare paura, in realtà non ha più potere.

Siamo persone chiamate ad abitare sulla soglia del sepolcro, come a tenere aperta una frontiera, un passaggio, a vivere in continuazione questo movimento dalla morte alla vita: vedere che i segni della morte sono ancora presenti, in noi e fuori di noi, ma credere a questa novità grande e assoluta, di un “più Forte” venuto nel mondo per sconfiggere quel nemico che l’uomo, da solo, non avrebbe mai nemmeno potuto affrontare.

Ecco, credo che Pasqua sia questo, soprattutto questo: non corpi ritrovati, ma occhi che si aprono... Pasqua è uno sguardo più che un ritrovamento, è un modo di vedere nuovo, più che un ritrovare le cose di prima, le cose di sempre.

In questo anno trascorso, in larga parte del mondo, abbiamo soprattutto contato contagi, malati, morti e, probabilmente, siamo un po’ tutti come Maria di Magdala: tentati di correre all’indietro, per ritrovare i corpi che abbiamo perso, le occasioni mancate, le feste rinviate, la vita che è sembrata sfuggirci. Sogniamo tutti un ritorno alla normalità che potrebbe però somigliare tanto a voler ritrovare un cadavere, un mondo e una vita malata, segnata dalla morte.

In questo Luogo, proprio QUI, risuona invece la voce misteriosa del Risorto che orienta il nostro cercare e riapre i nostri occhi, rendendoli capaci di vedere nel vuoto. E così, noi che vorremmo ritrovare quanto perduto, ci riscopriamo capaci di vedere la grande novità della Pasqua, se diamo ascolto a quella Voce, che ci parla di un futuro sconosciuto ma possibile, che ci rimanda non indietro, ma al Padre e ai fratelli (cf Mt 28,10), che ci spinge ad andare, non a tornare.

Pasqua è scommettere sull’impossibile di Dio piuttosto che sul possibile degli uomini. Pasqua è vedere il vuoto, guardare i segni della passione e scorgervi la premessa e la promessa di una Vita nuova e straordinaria, non perché siamo sognatori ma perché crediamo in Dio, Signore dell’impossibile.

Penso che questo mondo stanco, ferito, stremato dalla pandemia e da tante situazioni di paura, morte e dolore, logorato da troppe ricerche vane, che trova sempre meno ciò che cerca, abbia più che mai bisogno di una Chiesa dagli occhi aperti, dallo sguardo Pasquale, che sa scorgere le tracce della Vita anche tra i segni della morte. Qui insieme a Cristo, può e deve risorgere una Chiesa chiamata per nome dal Signore, che corre ad annunciare con gioia di averLo visto nei tanti volti e nelle tante storie di bellezza, di bontà e di santità che hanno consolato e consolano il suo cammino.

Dalla Pasqua può e deve ripartire una Chiesa che, umilmente fiera della vittoria del suo Signore, osa proporre la gioia del Vangelo a tutti, per ridisegnare un mondo e una storia di nuovi rapporti di giustizia e di fraternità. Cristo non è un cadavere, la Sua parola non è lettera morta, il Suo regno non è un sogno infranto, il Suo comandamento non è superato: Egli è la Vita, la nostra vita, la vita della Chiesa e del mondo. Egli è la Verità, la nostra verità, la verità della Chiesa scartata spesso dai potenti, ma pietra angolare di ogni costruzione che voglia sfidare le tempeste. Egli è la Via, la nostra via, la via della Chiesa, che passa certo dal Calvario ma giunge infallibilmente alla pienezza della gioia. Con tutta la Chiesa vogliamo qui vivere di questa Vita, annunciare questa Verità, camminare per questa Via. Dovremmo avere il coraggio di essere discepoli dell’impossibile, capaci di vedere il mondo con uno sguardo redento dall’incontro con il Risorto, e credere con la fede solida di chi ha sperimentato l’incontro con la Vita. Nulla è impossibile per chi ha fede.

Ecco cosa mi sento di dire a questa nostra Chiesa: coraggio! Nulla è impossibile, smettiamo di ripiegarci sulle nostre ferite, di cercare il Vivente tra i morti, di guardare indietro, al nostro passato, a quello che eravamo, a quanto abbiamo perduto. Non troveremo lì il Risorto, non è quella la nostra Pasqua!

Sentiremo in questi giorni risuonare per le nostre strade il saluto tipico di questi giorni: Cristo è risorto, è veramente risorto!

Non sia solo un saluto, ma il nostro annuncio di persone, di Chiesa che sa testimoniare con convinzione e certezza che ogni morte, ogni dolore, ogni fatica, ogni lacrima può essere trasformata in vita. E che c’è speranza. C’è sempre speranza.

Auguro allora a ciascuno di noi, alla nostra Chiesa e alla nostra città di vivere sempre alla luce del Risorto che dona gioia e vita a chiunque la voglia ricevere.

Buona Pasqua!

Gerusalemme, 4 aprile 2021

†Pierbattista Pizzaballa
Patriarca di Gerusalemme dei Latini


Fonte: Patriarcato latino di Gerusalemme (lpj.org)



giovedì 4 marzo 2021

Canonici regolari del Santo Sepolcro di Gerusalemme



Canonici regolari del Santo Sepolcro di Gerusalemme
Ordo Canonicorum Regularium Custodum Sacrosant Sepulchri Domini Hierosolymitani


 

Stemma dell’Ordine Canonicale del Santo Sepolcro

L'Ordine canonicale regolare del Santo Sepolcro, detto anche dei Canonici del Santo Sepolcro o Congregazione del Santo Sepolcro è un ordine religioso di canonici regolari creato da Goffredo di Buglione dopo la presa di Gerusalemme nel 1099. Seguendo la Regola di sant'Agostino, questo Ordine aveva la funzione non solo di proteggere il Santo Sepolcro ma anche di occuparsi della vita liturgica del santuario. Con l'estensione delle conquiste in Terra Santa, l'Ordine si sviluppò estendendo la propria missione per proteggere i luoghi santi in tutto il Regno di Gerusalemme. Nel preambolo del nuovo statuto dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, approvato da Papa Francesco in data 11 maggio 2020, è scritto che le proprie radici storiche affondano nell’istituzione dell'Ordine canonicale regolare del Santo Sepolcro , a differenza di quanto hanno sostenuto erroneamente alcuni storici moderni, che avevano negato tale legame.
Con la perdita degli Stati latini di Oriente, l'Ordine si trasferì in Europa. Nel 1489, papa Innocenzo VIII decise la soppressione dell'Ordine canonicale e la sua incorporazione nell'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, che avvenne solo per la compagine italiana dello stesso. Le Bolle di Pontfici quali Alessandro VI (1496), Leone X (1516) e Benedetto XIV (1746) permisero ai Canonici del Santo Sepolcro di continuare ad esistere: in Francia si presume siano stati presenti fino al periodo della Rivoluzione francese nel 1789, in Polonia fino a quando il monastero di Neisse fu sciolto nel 1810 ed il monastero principale di Miechów subì la medesima sorte nel 1819, e in Spagna fino al XIX secolo.


Il capitolo del Santo Sepolcro in Terra Santa

Il capitolo secolare (1099-1114)

Al termine dell'Assedio di Gerusalemme, durante la Prima crociata, i crociati non riuscirono a rintracciare il Patriarca della Città Santa, Simeone II. La sua cattedrale, la Chiesa del Santo Sepolcro, era quindi disponibile per l'installazione di un patriarca latino, posto per il quale l'11 agosto 1099 venne nominato, dopo alcune difficoltà, il fiammingo Arnolfo di Roeux, il quale però non poté essere consacrato ufficialmente perché fu subito rilevato che egli era ineleggibile secondo il diritto canonico non essendo ancora un diacono. Secondo Alberto di Aquisgrana, Fulcherio di Chartres e Guglielmo di Tiro, fu quindi proprio Goffredo di Buglione, non appena venne designato Difensore del Santo Sepolcro, a decidere di installare un capitolo di venti Fratres Cruciferi DominicSepulchri Hierosolymitanii”, ncaricati di assicurare la Liturgia delle ore e la celebrazione della messa in questa chiesa, oltre che di assistere il Patriarca nei suoi compiti spirituali e materiali.
Questa fondazione si inscrive nel movimento di riforma gregoriana che si sviluppò in Occidente nell'XI secolo, e nella linea del Sinodo lateranense del 1059. Se quest'ultimo raccomandava la scelta, per i capitoli, di un'organizzazione regolare, vale a dire la pratica di una vita integralmente in comunità e il voto di povertà per i suoi membri, sembra che quello istituito a Gerusalemme preferì un'organizzazione secolare, vale a dire con una vita di comunità ridotta e il mantenimento della proprietà individuale per ciascun canonico.
Difatti, al fine di consentire a questi canonici di garantire la propria sussistenza, Goffredo di Buglione costituì per loro importanti prebende e offrì loro delle belle dimore accanto al Santo Sepolcro. Oltre a questa dotazione del sovrano, i canonici beneficiavano anche delle offerte fatte dai fedeli. Una di queste offerte, che doveva essere condivisa tra i canonici, l'Ospedale, il re Baldovino I e il patriarca Dagoberto, ma che quest’ultimo aveva trattenuto, causò una disputa che portò al suo allontanamento nel 1102.
Nel 1103, il nuovo patriarca Ebremaro riformò l'assegnazione delle prebende ai canonici, rafforzando ulteriormente il carattere secolare del capitolo. I beni precedentemente comuni vennero trasformati in diversi benefici individuali, che vennero attribuiti a ciascun canonico in base alla sua dignità e alle sue funzioni. Questa riforma portò a una disparità di trattamento tra i canonici: difatti, alcuni si ritrovarono nell'opulenza mentre altri furono costretti a vivere in povertà. Negli anni che seguirono, questa situazione divenne così marcata che, nel 1112, il patriarca Gibelino di Sabran, su consiglio di Arnolfo di Roeux, esortò i canonici a essere fedeli alla vita comunitaria, analogamente a come vissuta dai capitoli di altre Chiese, e chiese a Baldovino I di obbligarli in tal senso.
Nel 1110, un canonico del Santo Sepolcro, chiamato Aschétin o Anselin, divenne per intervento reale il primo vescovo della diocesi di Betlemme.

Il capitolo regolare (1114-1291)

Poco dopo la morte di Gibelino nell'aprile del 1112, Arnolfo di Roeux divenne ufficialmente Patriarca di Gerusalemme. Fu lui a riformare il capitolo del Santo Sepolcro nel 1114, imponendo ai canonici di seguire pienamente la regola di Sant'Agostino, e più precisamente la Regula tertia. Si trattò di un cambiamento importante, di entità superiore a quello di una semplice riforma: il privilegio pubblicato da Arnolfo ha per titolo Transmutatio canonicorum secularium in regulares, «Trasformazione dei canonici secolari in regolari», e usa il termine renovatio, che implica un ritorno alla purezza originale. In questo stesso privilegio si affermava che il patriarca agiva con l'approvazione di Baldovino I e con l'approvazione del Papa e, il 6 luglio 1122, Callisto II pubblicò effettivamente una bolla nella quale confermò questa trasformazione.
Guglielmo di Tiro, che non apprezzava Arnolfo, riferisce che lo scopo di questa riforma era quello di sostituire i ricchi canonici nominati da Goffredo di Buglione con canonici regolari di modesta origine, requisendo le loro proprietà. La realtà sembra però essere meno desolante perché, nonostante la cattiva reputazione di Arnolfo, la sua azione mirava principalmente a riformare i costumi corrotti dei canonici secolari. In effetti, essa si inserisce bene nel quadro della riforma gregoriana, così come la storia del capitolo di Gerusalemme, con i suoi abusi e le sue riforme, il suo passaggio da secolare a regolare e fino ai termini usati nei testi, rispecchia l'evoluzione dei capitoli di canonici in Occidente nell'XI e XII secolo.
I canonici regolari erano obbligati al voto di povertà individuale e alla vita comune, anche per il sonno e i pasti. Al fine di garantire le entrate del capitolo, Arnolfo concesse loro una dotazione composta da metà delle offerte fatte al Santo Sepolcro, due terzi della cera offerta per l'illuminazione, tutte le offerte fatte alla Vera Croce – eccetto il Venerdì Santo e nelle volte in cui essa era affidata alle cure del patriarca – le decime riscosse a Gerusalemme e nei dintorni, metà del beneficio dato da Baldovino I alla creazione della diocesi di Betlemme e delle chiese di San Pietro a Giaffa e San Lazzaro. Il luogo di vita dei canonici, chiamato “Moustier (Monastero) del Sepolcro", è addossato al lato sud-ovest della Chiesa del Santo Sepolcro. Potevano accedervi attraverso una porta situata nella Cappella cosiddetta "dei Franchi", accanto a quella del Calvario. Questo convento comprendeva refettorio, dormitorio, sala del capitolo, cantina, cucina e altri spazi comuni, tutti organizzati attorno a un chiostro; questi edifici sono tuttora esistenti e sono occupati dai monaci copti ed etiopi.
Numerosi membri del Capitolo del Santo Sepolcro ottennero alti uffici ecclesiastici nel Regno di Gerusalemme. Tre di loro vennero nominati patriarchi: Guglielmo di Malines nel 1130, Fulcherio di Angoulême nel 1146 e Amalrico di Nesle nel 1158. Tre canonici vennero nominati Arcivescovi di Tiro: Guglielmo l'inglese nel 1128, Fulcherio di Angoulême nel 1134 - prima della sua elezione a patriarca - e Pietro di Barcellona nel 1148. Infine, nel 1168, un canonico chiamato Guerrico fu nominato arcivescovo di Petra.
Grazie alle funzioni liturgiche officiate nel Santo Sepolcro, prima chiesa del regno franco e culmine del pellegrinaggio a Gerusalemme, il capitolo ricevette numerose donazioni. Una parte di queste provenivano dall'Occidente; va notato che esse però erano solo la continuazione di un uso consolidato, giacché il clero ortodosso riceveva già numerosi doni ancor prima delle crociate, anche dopo lo scisma del 1054. Dal 1114, diversi privilegi di Baldovino I confermarono le donazioni fatte da Goffredo di Buglione. Imitando quest'ultimo, lungo tutta l'esistenza del Capitolo in Terra Santa i re di Gerusalemme continuarono a effettuarne, imitati dai sovrani europei, dai nobili e da semplici fedeli[20]. Lo stesso Patriarca di Gerusalemme faceva spesso donazioni, che potevano essere di natura finanziaria, ossia donazioni particolari o esenzioni dalle decime e dai canoni, ma principalmente erano composte di beni immobili, come case situate a Gerusalemme o campi agricoli.
Le donazioni più importanti furono di natura ecclesiastica. Oltre alla Chiesa di San Pietro a Giaffa, concessa nel 1103 da Ebremaro, i patriarchi diedero al Capitolo le chiese di Nostra Signora di Tiro, nel 1124 o 1127, della Quarantena nel 1134, o del Santo Sepolcro di San Giovanni d'Acri. Questi possedimenti vennero confermati da diverse bolle papali, come ad esempio quella di Onorio II nel 1128 che menziona sette chiese in Palestina, tre delle quali appartengono ai canonici con il villaggio che le circonda. In quest'epoca, risulta che il capitolo del Santo Sepolcro aveva già proprietà anche in Occidente, poiché nella stessa bolla di Onorio II sono elencate due chiese in Italia, dieci in Francia e quarantadue in Spagna, oltre a molte altre proprietà, dimore e ospedali. Nel XIII secolo, il capitolo possederà fino a 85 chiese in Terra Santa e in Europa, di cui le più importanti formavano dei priorati di canonici del Santo Sepolcro.

Organizzazione del Capitolo

Il Capitolo regolare del Santo Sepolcro era diretto da un superiore eletto dai canonici, che riceveva il titolo di «Priore del Santo Sepolcro». Quest'ultimo agiva in nome del Capitolo e aveva privilegi particolari. Primus di tutti gli abati e priori del patriarcato, si collocava subito dopo gli arcivescovi e i vescovi nell'ordine di precedenza del patriarcato latino di Gerusalemme. Come questi ultimi, indossava l'anello e la mitra e sostituiva il patriarca nelle funzioni liturgiche quando quest'ultimo era assente. Questo privilegio fu confermato da numerose bolle papali, pubblicate da Alessandro III nel 1168, 1170 e 1180, poi da Celestino III nel 1196. L'importanza del Priore era tale che egli poteva anche essere inviato a rappresentare il patriarca, come nel caso del terzo Concilio Lateranense nel 1179, dove il patriarca venne sostituito da Pietro, priore del Santo Sepolcro. Urbano IV gli conferì persino il titolo di «Priore della Chiesa di Gerusalemme», estendendo la sua autorità su tutte le chiese del patriarcato.
Come in ogni capitolo di canonici, i membri di quello del Santo Sepolcro condividevano diverse funzioni e uffici, chiamati «dignità». La maggior parte erano presenti fin dall'origine del Capitolo, come quelle di arcidiacono, cantore, scolario, cappellano o cameriere. Una dignità particolare era quella del tesoriere, il cui detentore era responsabile della cura della Vera Croce, che doveva portare sul campo di battaglia. Anche il "Custode della Chiave del Santo Sepolcro" godeva di dignità particolari. Dal 1151, l'arcidiacono del patriarcato cessò di essere un canonico; all'interno del capitolo, questa funzione venne sostituita da quella del Sotto-Priore.
Congregazioni di canonici si stabilirono a Giaffa, Acri, sul Monte degli Ulivi, a Betlemme, sul monte Tabor e in altri luoghi della Terra Santa e presero anch’essi il nome di Canonici del Santo Sepolcro, formando tutti una medesima congregazione la cui sede principale era a Gerusalemme.
La notorietà di Gerusalemme permise all'ordine di diffondersi in Occidente in tutti i paesi della cristianità latina. Vennero creati molti insediamenti affiliati, tutti collegati alla casa madre gerosolimitana e con la medesima liturgia.
Capitoli del Santo Sepolcro si stabilirono in Germania, Polonia, Inghilterra, Spagna e Paesi Bassi.
Dopo la perdita di Gerusalemme nel 1187, il Capitolo del Santo Sepolcro spostò la sua sede ad Acri.
I papi continuarono quindi a favorire un Ordine canonicale che acquisì una sempre maggiore importanza, moltiplicando concessioni, conferme e allargando i privilegi. Urbano IVconcesse un'esenzione nel 1262, permettendogli così di essere liberato da qualsiasi tutela, essendo solo soggetto alla Santa Sede.


Attorno al capitolo del Santo Sepolcro si radunarono anche uomini devoti in una sorta di confraternita laicale. I crociati, che rimasero in Terra Santa, misero spontaneamente le loro armi al servizio dei canonici per proteggere e difendere il Santo Sepolcro. Come altri cavalieri ingaggiati da chiese e abbazie occidentali, essi venivano chiamati “Sergentes” o “Donati”, vale a dire laici scelti tra le Milizie Crociate per il loro valore e il loro impegno i quali, condividendo lo spirito dell'Ordine, si impegnavano alla difesa del Santo Sepolcro e dei luoghi Santi sotto il comando del re di Gerusalemme e ne costituivano in certo qual modo la milizia scelta, senza pronunciare voti.
Questi cavalieri laici avevano quindi una doppia dipendenza, una dipendenza religiosa dai canonici e una dipendenza caritativa dagli Ospedalieri che li nutrivano e li mantenevano.
Prima di creare i Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone, Hugues de Payns fin dal 1115 faceva probabilmente parte dei Milites Sancti Sepulcri.
I patriarchi di Gerusalemme, serviti dai canonici, essendo tra i maggiori proprietari terrieri nel regno di Gerusalemme – più di un quarto della città santa apparteva a loro – erano tenuti a fornire un contingente armato al re di Gerusalemme. L’esistenza di questo obbligo militare, derivato da obblighi feudali, per lungo tempo fece erroneamente supporre agli storici che l’Ordine canonicale del Santo Sepolcro fosse un ordine militare , seppur ebbe quasi certamente accanto, in modo pressoché costante, numerosi cavalieri che li affiancarono nella difesa del Santo Sepolcro e della stessa Città Santa (da qui deriva appunto il primo nucleo di ciò che nei secoli sarà, dapprima sotto forma di semplice dignità equestre e successivamente come Ordine strutturato sotto la protezione della Santa Sede, l’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme ).


L'ordine canonicale del Santo Sepolcro in Europa (e declino)

L'alto rango della chiesa in favore della quale erano stati fondati, e la loro posizione nella vita politica e religiosa del regno di Gerusalemme, assicurarono ai membri del Capitolo regolare non solo una posizione onoraria assai elevata tra le istituzioni ecclesiastiche in Terra Santa, ma procurarono loro proprietà e prestigio su entrambe le sponde del Mediterraneo. Già nei primi decenni del XII secolo, ancor prima degli Ospitalieri e dei Templari, i Canonici erano presenti nella Francia meridionale e in Spagna, espandendosi gradualmente in Europa occidentale, centrale e orientale, spingendosi fino a Bisanzio e a Cipro, al punto che già alla fine del XII secolo potevano vantarsi di aver eretto monasteri in omnibus regnis.
I Canonici si stabilirono e avevano monasteri in Italia, Francia, Spagna, Polonia, Inghilterra, Croazia e Paesi Bassi.
Cipro:
Quando Saladino occupa Gerusalemme, i Canonici lasciano la Terra Santa fuggendo insieme agli altri cristiani latini. La sede dei Canonici viene spostata da Gerusalemme a San Giovanni d'Acri. Molti Canonici si stabilirono brevemente a Cipro, nell'Abbazia di Bellapais, per poi procedere verso l'Europa occidentale.
Spagna:
In Spagna, il villaggio di Torralba de Ribota apparteneva alla Chiesa madre di Calatayud dei Canonici del Santo Sepolcro, sotto la protezione di Pedro Manrique de Lara, Dei gratia comes, “Conte per la grazia di Dio". La Collegiata del Santo Sepolcro di Calatayud è stata la casa madre dell’Ordine nel Regno d’Aragona per molti secoli. È quindi un tempio emblematico della presenza dell’Ordine nella penisola iberica. Fu costruita a seguito della decisione di Papa Innocenzo III, con bolla del 19 settembre 1215, è stata proclamata basilica a seguito del conferimento del titolo da parte di Papa Francesco il 9 novembre 2020 . Molto probabilmente anche il convento di Santa Anna a Barcellona, oggi una chiesa, era originariamente una casa dei Canonici del Santo Sepolcro, sotto la guida del Patriarca di Gerusalemme.
Polonia:
Dopo la loro espulsione dalla Terra Santa, molti Canonici si stabilirono in Polonia; particolarmente attivi furono i monasteri del Santo Sepolcro di Nysa (in tedesco Neisse) e quello di Miechów, fondato nel 1163 da Jaxa de Copnic, che ricevette molti privilegi da Casimiro di Bytom, da Casimiro II il Giusto e da Przemysł II. Nel 1291, dopo la presa definitiva del Regno di Gerusalemme da parte dei musulmani, il superiore del convento di Miechów assunse il titolo di Maestro Generale dell'ordine, rivendicando in seguito il titolo di Gran Priore. Miechów divenne così il quartier generale dell'organizzazione per diversi secoli, avviando l'usanza di allestire, decorare e visitare i “sepolcri" di Cristo negli ultimi giorni della Settimana Santa. Fu a Miechów, peraltro, che venne conservata la più antica replica del Santo Sepolcro in Europa, meta di numerosi pellegrinaggi.
I Canonici furono anche attivi in Inghilterra. Secondo il Monasticon Anglicanum di William Dugdale (1655) i Canonici possedevano in Inghilterra due case, una al Priorato del Sacro Sepolcro di Thetford e l'altra a Warwick. Ulteriori indicazioni propongono il Priorato di Caldwell e il Priorato del Santo Sepolcro di Nottingham.
Croazia ed Ungheria
Il re Andrea II d'Ungheria, detto il Gerosolimitano in quanto partecipò alla V ^ crociata, usò i fondi ereditati da suo padre per reclutare sostenitori tra i signori ungheresi, stringendo un'alleanza con Leopoldo VI, duca d'Austria e complottando insieme a questi contro suo fratello Emerico. Le loro truppe unite dirottarono l'esercito reale a Mački, in Slavonia, nel dicembre del 1197. Sotto coercizione, il re Emerico concesse la Croazia e la Dalmazia ad Andrea come appannaggio. In pratica, il re Andrea, amministrò la Croazia e la Dalmazia come monarca indipendente, coniando monete, concedendo terre e confermando i privilegi. Collaborò con i Frankopan, i Babonić e altri signori locali. Il re Andrea aveva anche la prerogativa di investire i Milites Sancti Sepulcri in virtù del sub infeudazione con il Regno di Gerusalemme acquisita con la sua partecipazione alla V ^ crociata. Dopo aver sposato Beatrice II d'Este sorella di San Contardo d'Este lo nomina Miles Sancti Sepulcri. I Canonici regolari del Santo Sepolcro si stabilirono anche nella provincia croata durante il suo regno.
Italia
Costretto a lasciare la Terra Santa con la caduta di Acri nel 1291, i Canonici del Santo Sepolcro si spostarono prima a Cipro e successivamente, a partire dal 1320, a Perugia, installandosi nella chiesa di San Luca Evangelista, posta nel fondo di via dei Priori. Questa chiesa-commenda e il complesso annesso risultavano già legati ai Canonici regolari fin dal 1145 – il priore di San Luca era anche Arci-Priore dell’Ordine – così come anche le fondazioni di San Manno e Santa Croce, motivo che permette di comprendere come mai l’Ordine decise di trasferirsi nella città umbra in un periodo, tra l’altro, nel quale questa rivestiva un ruolo importante in tutto il Centro Italia. Progressivamente i Canonici riuscirono a ottenere nella città e nei suoi dintorni una serie di chiese, e lo stesso a Todi, Nocera, Città della Pieve, Chiusi e Acquapendente, acquisendo beni e possedimenti. Fino alla metà del XIV secolo, i priori provenivano da Francia, Spagna e da altre zone d’Italia, e solo successivamente vennero scelti tra le famiglie della città.
È certo che anche dopo la soppressione del 1489 i Canonici continuarono a vivere e a operare nel complesso, la cui chiesa fu completata nel 1586 dal commendatore di San Luca, il nobile veronese Giulio Bravi, quando nel ruolo di Gran Maestro degli Ospitalieri figurava il cardinale guascone fra’ Ugo Loubenx de Verdalle (1582-1595). Nell’edificio sacro era stato collocato e venerato anche un crocifisso poi trasferito nella Badia, oggi definito Castello, dei Cavalieri Ospitalieri a Magione, residenza estiva del Gran Maestro. Altra testimonianza del passaggio e della permanenza dei Canonici a Perugia è il Messale di San Giovanni d’Acri, ora al Museo capitolare della Cattedrale di San Lorenzo.

Declino

I canonici sparsi in Europa non costituirono un'unica organizzazione e non riconobbero dei leader comuni; i loro usi e costituzioni variarono difatti da luogo a luogo: in Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, Polonia, Ungheria e Croazia i membri dell’Ordine si organizzarono in congregazioni monastiche sotto la guida dei prevosti e dei priori di Barletta e Messina, di Annecy e La Vinadère, di Barcellona, di Calatayud e Logroño, di Warwick e Thetford, di Denkendorf e Droysig, di Miechow, di Praga e Glogovnicka, non tenendo quasi più in considerazione l’Arcipriore di Perugia: questo atteggiamento si esplicitò anche nel fatto che progressivamente tutte le comunità si rifiutarono di pagargli le imposte che gli spettavano, atteggiamento di insubordinazione che venne ulteriormente incoraggiato dal patriarca di Gerusalemme, il quale avanzò delle pretese sulla supremazia nell'Ordine pretendendo anch'egli, come il priore, il pagamento di tributi annuali. Dalla metà del XIV secolo, si generò quindi una disputa tra l'arcipriore e il patriarca che, almeno in Europa orientale, in Polonia, Boemia e Ungheria, terminò con la vittoria del patriarca: egli, da questi territori, venne difatti riconosciuto come il vero e unico capo di tutti i monasteri collegati alla Chiesa di Gerusalemme.
Nel 1473 papa papa Sisto IV, su richiesta dell’allora arcipriore Cattaneo de Traversagni, convocò a Roma per il giorno di Pentecoste un Capitolo generale dell'Ordine, affidandone la conduzione a Giovanni Battista Cybo, cardinale di S. Balbina, futuro papa Innocenzo VIII[34]. Scopo della riunione era quello di stabilire quali case dovessero davvero parte dell'Ordine e quali tributi esse dovevano corrispondere al priore generale. I vecchi registri, a causa dei trasferimenti avvenuti nel corso del tempo, non esistevano più, e si decise quindi di fissare il census a un decimo delle entrate, riscuotendo i tributi sul luogo. L’arcipriore si recò quindi in Puglia e in Sicilia, in Francia e in Spagna, trattenendosi mesi al fine di convincere i prevosti e i priori di Barletta, di Brindisi, di Piazza Armerina e di Acquapendente, di S. Anna a Barcellona, di Denkendorf e Spira a pagare i loro tributi.
Il 28 marzo 1489, Papa Innocenzo VIII pubblicò la bolla Cum solerti meditatione, nella quale soppresse l'Ordine Canonicale incorporandolo nell'Ordine degli Ospitalieri, anche per sostenere quest’ultimo, indebolito dalla lotta contro i turchi, con i possedimenti e le entrate del primo. Mentre in Italia questa sentenza del papa venne accolta senza obiezioni né reclami, in Germania e nei Paesi Bassi, in Polonia, in Spagna e in Ungheria si sollevò la protesta contro queste misure, rafforzata ed espressa nelle esplicite richieste di un suo mantenimento in vita da parte dell'imperatore Massimiliano I e del duca Eberardo di Württemberg. L'indipendenza dei Canonici regolari del Santo Sepolcro in quelle terre venne così mantenuta e, nel 1499, confermata con una bolla di papa Alessandro VI. Questo consentì ai Canonici del Santo Sepolcro di continuare ad esistere: in Francia, si presume che esistessero fino al periodo della Rivoluzione francese nel 1789, in Polonia, dopo che il monastero di Neisse fu sciolto nel 1810, anche il monastero principale di Miechów fu sciolto nel 1819, e in Spagna sopravvissero fino al XIX secolo.

La vita quotidiana dei canonici

Il primo abito dei canonici era bianco ma, alla perdita di tutti i loro insediamenti in Oriente, presero – come segno di lutto – l’abito nero che conservarono anche in seguito.
I canonici indossavano inoltre una croce patriarcale latina (detta anche a doppia traversa), di colore scarlatto, cucita sul loro mantello.

Storiografia
Tra confusione e leggenda

A partire dal XVII secolo, sotto l'influenza delle canonichesse regolari del Santo Sepolcro stabilite in Belgio e a Parigi, diversi autori confusero l'ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e i Canonici del Santo Sepolcro, dando loro come fondatore comune Giacomo il Giusto, primo vescovo di Gerusalemme, al quale attribuirono l'istituzione di un guardiano della comunità cenobitica della tomba di Gesù, una fondazione che pongono nel 60 o 61 (Alphonse Couret nel 1905), 69 o 70 ( Zacharie Allemand nel 1815) o addirittura 96 (François Mennens, nel 1623). Altri lo sostituiscono con Giacomo il Maggiore (Nicolas Bénard, nel 1621). Così i canonici del Santo Sepolcro di Miechów reclameranno una fondazione da parte di San Giacomo. Tuttavia, questi elementi sono improbabili, perché la vita religiosa in comunità non apparve fino al IV secolo, anche se è probabile la venerazione della tomba di Cristo da parte dei primi cristiani. Questa ricerca di cosiddette "origini antiche" deve essere paragonata a quella fatta dall’Ordine dei Carmelitani, la cui tradizione ne faceva risalire l'origine al profeta Elia, prototipo e modello degli eremiti e dei contemplativi, legato al Monte Carmelo dall'episodio biblico della sfida ai profeti di Baal, ma che sorse verso la fine del XII secolo a opera di una comunità di eremiti stabilitasi in Galilea in seguito alla prima crociata.
Nella stessa epoca, Pierre d'Avity suggerisce che Sant'Elena, dopo aver costruito la basilica della Resurrezione, pose lì dei Canonici regolari dell'Ordine di Sant'Agostino assistiti da Gentiluomini del suo seguito. Questa affermazione è stata poi ripresa da diversi autori (Bénart, Allemand, e altri), ma si tratta di un anacronismo non giustificato dai testi dell'epoca. Se ci fosse davvero un clero bizantino nella basilica, ci sono poche informazioni al riguardo.
Infine, autori come Michel de Pierredon, nel 1928, vedono canonici stabiliti o sovvenzionati da Carlo Magno nei ventitré canonici annoverati nel clero del Santo Sepolcro dal Commemoratorium de casis Dei vel monasteriis. Se anche questo Imperatore effettivamente inviò elemosine in Terra Santa, il termine in questione indica però solo dei semplici chierici minori addetti alla Chiesa del Santo Sepolcro.

Santi e Beati
Beato Andrea di Antiochia (Antiochia 1268 - Annecy 1360)



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https://it.wikipedia.org/wiki/Canonici_regolari_del_Santo_Sepolcro_di_Gerusalemme
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