sabato 22 febbraio 2025

Caratteristiche e criteri per una pastorale della pace, di S.B. Card. Patriarca Pierbattista Pizzaballa

 CARATTERISTICHE E CRITERI PER UNA PASTORALE DELLA PACE

di S.B. Card. Patriarca Pierbattista Pizzaballa




Introduzione

Grazie per il vostro invito, di cui sono stato onorato. Sono grato alla vostra venerabile istituzione, con la quale collaboriamo ormai da molti anni. Grazie al fatto che agli Studi Teologici del Patriarcato Latino è stata concessa l'affiliazione alla Facoltà di Teologia. Considero questo legame tra Roma e Gerusalemme di fondamentale importanza per la Chiesa odierna. Colgo anche questa occasione per porgere i miei migliori auguri al nuovo Magnifico Rettore, Mons. Amarante, al nuovo Pro-Rettore, Mons. Ferri, e al nuovo Decano di Teologia, Mons. Lameri.

Ciò che sta accadendo in Terra Santa è una tragedia senza precedenti. Oltre alla gravità del contesto militare e politico in continuo deterioramento, si sta deteriorando anche il contesto religioso e sociale. Le linee di demarcazione tra le comunità, e i pochi ma importanti contesti di convivenza interreligiosa e civile si stanno gradualmente disintegrando. Al contrario, un atteggiamento di sfiducia sta crescendo progressivamente di giorno in giorno. Un panorama desolante. Non manca certo la speranza tra le tante persone che ancora, nonostante tutto, vogliono lavorare per la riconciliazione e la pace. Ma dobbiamo riconoscere realisticamente che queste sono realtà di nicchia e che il quadro generale rimane molto preoccupante.

Oltre a legarmi ancora di più al gregge che guido, questa tragedia ha provocato innumerevoli riflessioni sulla pace. Oggi, si può ancora “pensare alla pace” in Terra Santa? “Pace” sembra una parola lontana, utopica, vuota di contenuto, se non oggetto di infinite manipolazioni. Non di rado, gli stessi che sono a favore della pace concludono i loro discorsi dicendo che per raggiungerla, la guerra è inevitabile. 

La nostra terra sanguina ancora, e la nostra gente è in preda alla paura e all'incertezza del futuro. Molti, troppi, hanno solo macerie davanti a loro. 

Il tema che mi avete proposto per questa conferenza - Caratteristiche e criteri per una pastorale della pace - può essere qui esposto solo brevemente, senza intenti esaustivi. Il mio compito qui - a quanto ho capito - non è quello di fare un discorso e proporre criteri generali per costruire contesti di pace, o percorsi concreti di pace possibile. I percorsi e i criteri, come sappiamo, sono molteplici: oltre a quelli religiosi, ci sono quelli economici, politici, sociali, mediatici, educativi. Sono strettamente legati ai concetti di memoria, identità e molto altro. Vale a dire, è un argomento molto ampio. Non sarà questo lo scopo della mia presentazione, ma piuttosto un'introduzione basata sulla mia esperienza di pastore in Terra Santa. Partendo dalla mia esperienza personale, cercherò di indicare alcuni criteri su cui la Chiesa di Terra Santa dovrebbe basare la sua azione per la pace, in quel contesto specifico, che oggi è diventato al centro dell'attenzione in tutto il mondo, nonché fonte di divisione in tante altre parti del mondo. 

  1. Guardando il volto di Dio

In primo luogo, ritengo sia importante chiarire perché la pace è un tema centrale per la vita della Chiesa e per la sua azione nel mondo.

La prima peculiarità della pace è che essa, prima di essere un progetto umano conforme alla volontà divina, è un dono di Dio ; anzi, dice qualcosa di Dio stesso: Adonài shalòm, «Il Signore è pace» (Gdc 6,24; cfr Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 488 ). Come è noto, l'ebraico - shalòm - come del resto il suo corrispettivo arabo - salàam - indica molto di più di una situazione sociopolitica senza guerra: esprime la «pienezza di vita», che agisce come approccio integrale. Non è quindi solo una costruzione umana o una realizzazione della convivenza umana, ma una realtà che viene da Dio e una relazione con Lui: è il compimento delle promesse messianiche (cfr Is 2,2-5; 11,6-9). Gesù Cristo, il Messia, è Sar shalòm , «Principe della pace» (Is 9,5), è «la nostra pace» (Ef 2,14), colui che ha abbattuto la barriera tra gli uomini, il muro di inimicizia che era tra loro (cfr Ef 2,14-16).

Da Gerusalemme risuona fino ai confini della terra il grido del Risorto: «Pace a voi!» (Gv 20,19). Non per niente è questa la prima parola del Risorto agli Apostoli e alle donne riuniti nel Cenacolo, e deve essere anche la nostra prima e ultima parola, da uomini nuovi e risorti. Non è una «pace del mondo» - dice Cristo -, ma «la mia pace» (Gv 14,27). Perciò «la nostra pace» viene dalla «sua pace», perché Egli ci dona se stesso, morto e risorto per noi. Il cuore della pace è il mistero pasquale di Cristo. È proprio attraverso questo mistero che la pace, che è Cristo, diventa nello stesso tempo riconciliazione con Dio e tra gli uomini. Per questo oggi occorre ribadire con forza che ogni azione pastorale della Chiesa, come del resto ogni sua opera sociale, non può in alcun modo essere separata dall’evangelizzazione (cfr Compendio della Dottrina sociale della Chiesa , n. 493): l’annuncio del Vangelo è annuncio del «vangelo della pace» (Ef 6,15), e chi evangelizza annuncia la pace anche ai nemici, come fece Pietro con Cornelio, il quale era - non dimentichiamolo mai in questi tempi! - centurione delle truppe che occupavano il suo paese (cfr At 10,36).

Questa prima e squisitamente teologica peculiarità della pace ci fornisce il primo e fondamentale criterio per la pace: guardare il volto di Dio. Questo criterio è stato indicato da san Paolo VI quando, mentre era impegnato a concludere il Concilio, volle richiamare i popoli alla pace, non a caso, nella festa di san Francesco d'Assisi, il 4 ottobre 1965, davanti ai rappresentanti di 116 nazioni, nel palazzo di vetro delle Nazioni Unite a New York. L'importanza di questo discorso deriva dal fatto che nessun Papa nella storia aveva mai pronunciato personalmente un discorso sulla pace davanti ai rappresentanti diplomatici della massima assemblea mondiale. Al termine del suo discorso, il Papa, con grande spirito parrocchiale e profetico, invitò le nazioni a fondare la pace sulla fede e sulla conversione a Dio: «L'edificio che state costruendo non poggia su fondamenta puramente materiali e terrene, perché in tal caso sarebbe una casa costruita sulla sabbia. Poggia soprattutto sulle coscienze. Sì, è giunto il momento della "conversione", della trasformazione personale, del rinnovamento interiore... Il vero pericolo viene dall'uomo, che ha a disposizione strumenti sempre più potenti, adatti tanto a provocare la rovina quanto a raggiungere alte conquiste. Per dirla in una parola, l'edificio della civiltà moderna deve essere costruito su principi spirituali, perché sono i soli capaci non solo di sostenerlo, ma anche di illuminarlo e di ispirarlo. E siamo convinti, come sapete, che questi indispensabili principi di superiore saggezza non possono basarsi su altro che sulla fede in Dio».

Ciò implica due cose, che vanno sempre di pari passo: essere consapevoli della propria debolezza e vedere il volto di Dio. C’è un passo nel libro della Genesi, che mi piace sempre ricordare, che indica come si riconosce il volto di Dio. Mi riferisco al noto episodio di Giacobbe nella sua lotta con un misterioso personaggio sulle rive dello Iabbok, nel suo viaggio per incontrare il fratello Esaù, con il quale sta per arrivare la resa dei conti. In quella singolare lotta, Giacobbe riconosce il volto di Dio, tanto che chiama quel luogo della lotta “Peniel”, il “volto di Dio”. Da quella notte travagliata esce zoppicando, ma confessando: “Ho visto Dio faccia a faccia!” (Gen 32,31). Esce sconfitto ma vittorioso, zoppicando ma appoggiato a Dio. Solo zoppicando Giacobbe può andare incontro al fratello-nemico: Esaù lo abbraccia e i due piangono. A questo punto Giacobbe si rivolge a Esaù con una delle frasi più belle della Bibbia, a volte tradotta male e che perciò traduco letteralmente: «Vedere il tuo volto è per me come vedere il volto di Dio» (Gen 33,10). Solo quando abbiamo sperimentato la nostra debolezza e, in questa, abbiamo incontrato il volto di Dio, siamo pronti ad andare incontro al fratello-nemico. Se non andiamo incontro all’altro zoppicando, rischiamo di aprire continuamente scenari di guerra, perché l’altro non è più un nostro simile, ma un nemico, da temere o da eliminare.

Nella Bibbia, tuttavia, c'è anche la prospettiva opposta, conflittuale. Infatti, il libro del profeta Abdia descrive il lato oscuro di quella relazione, dichiarando a Edom, i discendenti di Esaù: "A causa della violenza fatta a tuo fratello Giacobbe, la vergogna ti coprirà, sarai annientato per sempre!" (Abdia 10). Da qui, l'esortazione dello stesso profeta, attuale oggi come sempre: "Non gioire del giorno di tuo fratello, del giorno della sua sventura" (Abdia 12).

  1. Guardare il volto dell'altra persona

Quanto appena affermato ci conduce alla seconda caratteristica della pace: oltre a essere una realtà divina, essa è una realtà umana e sociale , un valore universale, un dovere ineludibile che chiama tutti ad agire , pena l'autodistruzione dell'uomo. Tuttavia, la pace, sul piano antropologico, non è solo una convenzione sociale, un armistizio, una mera tregua, o un'assenza di guerra, frutto di sforzi diplomatici e di equilibri geopolitici globali o locali, che in Terra Santa stanno purtroppo crollando! Certo, nelle attuali condizioni, ciò sarebbe eminente! Ma la pace è molto di più: si fonda sulla verità dell'umano, che sola può condurre a un autentico omnium rerum tranquillitas ordini 'la tranquillità dell'ordine' (cfr S. Agostino, De Civitate Dei XIX,13,1), perché è stabilita secondo giustizia e carità.

Ed ecco allora il secondo criterio: rimettere al centro l’uomo, tornare al volto dell’altro, alla centralità della persona umana e alla sua incomparabile dignità . Quando svanisce il volto dell’altro, svanisce anche il volto di Dio e così la vera pace. Solo nel contesto dello sviluppo umano integrale, nel rispetto dei diritti umani, può nascere una vera cultura di pace e sorgere «profeti disarmati, spesso oggetto di scherno» ( Compendio della Dottrina sociale della Chiesa , n. 496), testimoni e pilastri della pace. Il mondo ha più che mai bisogno di loro, anche a costo di essere perseguitati e bollati come utopisti e visionari. Per la pace bisogna sempre rischiare. Bisogna essere disposti a perdere l’onore, a morire come Gesù.

Il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas affermava: «Nel semplice incontro di un uomo con l’Altro è in gioco l’essenziale, l’assoluto. Nella manifestazione, nell’“epifania” del volto dell’Altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui posso condividerlo con l’Altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, a portata del mio sguardo, a portata di un gesto di complicità o di aggressione, di accoglienza o di rifiuto» (L’epifania del volto, citato in C. Pintus, “Includere per comunicare”, in E. Cauda - L. Scursatone [a cura di], Educazione, comunicazione e lingua dei segni italiana, Varazze 2017, 14). Nessuno è un’isola: quando distruggiamo il volto dell’altro, dissolviamo anche il nostro, soprattutto nell’era dell’interconnessione globale in cui viviamo. Se affondiamo, affonderemo insieme, sulla stessa barca, perché siamo più che mai in un villaggio globale.

  1. La missione della Chiesa.

Dopo questo breve sguardo agli aspetti teologici e umani della pace, dobbiamo ora venire più direttamente al tema da voi proposto e domandarci come questa dimensione si esprima nella vita della Chiesa. Come la Chiesa sia chiamata a dare tale annuncio e tale testimonianza. Come ho detto all'inizio, mi limiterò qui solo ad abbozzare un pensiero sulla Chiesa di Gerusalemme, basato sulla mia esperienza personale, senza presunzione.

  Da tempo la nostra Chiesa riflette su questo nostro contesto di guerra; una riflessione costruttiva e al tempo stesso vera, reale, che non cade in slogan scontati o luoghi comuni scontati. Il conflitto con le sue conseguenze coinvolge la vita di tutti nella nostra diocesi ed è quindi parte integrante della vita della Chiesa, della sua cura pastorale. Tutto ciò che siamo e facciamo ha a che fare direttamente e indirettamente con il conflitto e le sue conseguenze, dagli aspetti più pratici alla riflessione sempre più accesa su questioni più complesse: dalle frontiere chiuse e dagli attraversamenti, dai permessi dati e non dati, alla riflessione sull'occupazione e sulla possibile risposta cristiana ad essa. Ciò che intendo dire è che il conflitto non è una questione temporanea e secondaria nella vita della nostra Chiesa, ma è ormai parte integrante e costitutiva della nostra identità di Chiesa: conflitto e divisione, con le conseguenze dell'odio e del risentimento, sono una realtà ordinaria con cui dobbiamo fare i conti e che richiede da parte della comunità cristiana un continuo cammino di riflessione e di elaborazione spirituale, pastorale e sociale. Parlare di pace, quindi, per noi non è parlare di un tema astratto, ma di una ferita profonda nella vita della comunità cristiana, che provoca sofferenza e stanchezza e tocca profondamente la vita umana e spirituale di tutti noi. 

Non so se siamo riusciti a giungere a una sintesi nell'interpretazione di questo tema, probabilmente non ancora. Penso che per noi la riflessione sulla testimonianza della pace sarà sempre un work in progress, non avremo mai un discorso completo e conclusivo, ma dovremo fare i conti con i continui sviluppi dei diversi quadri politici che via via si formano e si dipanano, e con le loro conseguenze sulla vita dei popoli della Terra Santa. Situazioni che interrogano di volta in volta la nostra fede. E forse non è nemmeno il momento della sintesi, ma dell'ascolto. Ascoltare le diverse voci, i sentimenti, le visioni, le fatiche e le speranze, e cercare di leggerle alla luce del Vangelo. Sforzandosi però di individuare alcuni tratti comuni, caratteristiche e criteri che dovranno comunque accompagnare stabilmente la nostra riflessione.

Non possiamo infatti non domandarci come vivere la pace a Gerusalemme, città chiamata a essere custode della pace, ma continuamente lacerata e contesa.

Per noi, Chiesa di Terra Santa, inserita nel contesto di una società multireligiosa e multiculturale, ricca di diversità ma anche di divisioni, la «pace di Gerusalemme» di cui parla il Salmo 121 non è la soppressione delle differenze, l'annullamento delle distanze, ma non è neppure una tregua o un patto di non belligeranza garantito da patti e muri. Siamo convinti che è su un'accoglienza cordiale e sincera dell'altro, su una tenace disponibilità all'ascolto e al dialogo, che la nostra comunità è chiamata a essere una strada aperta in cui la paura e il sospetto cedono il passo alla conoscenza, all'incontro e alla fiducia, dove le differenze sono occasioni di compagnia e collaborazione e non pretesto per la guerra.

Dovremo sempre più allontanarci dalla preoccupazione di occupare strutture fisiche e istituzionali e concentrarci di più sulle dinamiche belle e buone della vita che, come credenti, possiamo avviare. Certo: a volte anche per noi le tentazioni della fuga e della rassegnazione, il facile compromesso con il potere o la risposta violenta possono apparire come l'unica possibile reazione al momento difficile in cui ci è dato di vivere. 

Tuttavia, come credenti e religiosi, saremo una presenza “interessante” nella misura in cui la nostra profezia sarà la nostra testimonianza quotidiana, perché in un contesto sociale e politico in cui sopraffazione, chiusura e violenza sembrano essere l’unica parola possibile, continueremo ad affermare la via dell’incontro e del rispetto reciproco come l’unica via d’uscita capace di condurre alla pace.

La pace ha bisogno della testimonianza di gesti chiari e forti da parte di tutti i credenti, ma ha bisogno anche di essere annunciata e difesa con parole pronunciate.

Per questo ci troviamo spesso a un bivio, quasi chiamati a scegliere tra la doverosa denuncia delle violenze e degli abusi, perpetrati sempre a danno dei più deboli, e il rischio di ridurre la religione a un 'agente politico' o addirittura a un partito o a una fazione, dimenticandone la vera natura ed esponendola a facili e superficiali strumentalizzazioni. Il nostro essere credenti in Terra Santa non può rinchiudersi nell'intimismo devozionale, né può limitarsi al solo servizio della carità verso i più poveri, ma è anche parrocchiale, cioè non può astenersi dall'esprimere, nei modi propri di ogni esperienza religiosa, un giudizio sul mondo e sulle sue dinamiche (cfr Gv 16,8.11). Sappiamo bene come la politica avvolga la vita ordinaria in tutti i suoi aspetti in Medio Oriente. Tutto diventa politica e questo interpella seriamente tutte le nostre istituzioni religiose e i nostri fedeli, che attendono da noi una parola di speranza, di consolazione, ma anche di verità. Ciò che è richiesto qui è un discernimento davvero difficile, mai compiuto una volta per tutte, che richiede la capacità di ascoltare tutte le voci, ma anche di interpretare criticamente, e quindi anche profeticamente, il presente.

Non possiamo tacere di fronte all'ingiustizia o invitare al quieto vivere e al disimpegno. Tuttavia, l'opzione preferenziale per i poveri e i deboli non ci rende un partito politico. Prendere posizione, come spesso ci viene chiesto di fare, non può significare diventare parte di uno scontro, ma deve sempre tradursi in parole e azioni a favore di coloro che soffrono e gemono e non in slogan e condanne contro chiunque. Può essere facile e comodo a volte unirsi al coro delle critiche e delle recriminazioni e possiamo anche ottenere applausi e consensi, ma questa può essere una tentazione mondana. In breve, come credenti siamo chiamati ad amare e servire la polis e a condividere con tutti la preoccupazione e l'azione per il bene comune, nell'interesse generale di tutti e specialmente dei poveri, alzando sempre la voce per difendere i diritti di Dio e dell'uomo, ma senza entrare nella logica della competizione e della divisione.

Fatte queste premesse, la domanda da porsi ora è: come viviamo così, quali sono le caratteristiche e i criteri necessari, gli elementi su cui fondare questo nostro stile, questo modo di essere in Terra Santa, come cristiani e come Chiesa? Quali sono gli elementi che devono accompagnare stabilmente la nostra riflessione cristiana sulla pace, i criteri che devono sorreggere la nostra interpretazione della situazione attuale? Quali sono gli ambiti di azione su cui fondare una pastorale ecclesiale per la pace solida e credibile? Certamente, sono tanti, e sempre in evoluzione, come ho detto prima. Quella che chiamiamo pastorale della pace non è diversa da qualsiasi altra attività pastorale: ha bisogno di persone, ha bisogno di una metodologia specifica, di chiare basi spirituali su cui fondare la sua azione, su cosa, su cosa e per cosa lavorare. 

3.1 Leadership

Nel contesto che abbiamo delineato sopra, la responsabilità della leadership religiosa, specialmente in Medio Oriente, è essenziale. In primo luogo, è necessario avere guide, pastori e leader capaci di ascoltare ed essere la voce della loro comunità e di dirigere e guidare.

Invece di essere il sostegno religioso di regimi politici con poca credibilità, la leadership religiosa dovrebbe, prima di tutto, cooperare con la parte migliore della società nella creazione di una nuova cultura della legalità e diventare una voce libera e profetica di giustizia, diritti umani e pace. Come abbiamo affermato all'inizio, questi valori non sono solo valori umani, ma prima di tutto un'espressione del desiderio di Dio per l'uomo. Il nostro contributo come leadership religiosa alla resilienza e all'innovazione in mezzo alle enormi sfide locali di oggi non è quello di reinventare la ruota: cioè, trovare nuove e moderne strategie operative, ma di essere noi stessi testimoni credibili, sinceri e appassionati di Dio. 

Mi chiedo se nelle azioni e nelle parole che uso, temo di più Dio o la reazione delle persone, dei politici, dei media... Nel rivolgermi alla mia comunità, ho il "coraggio" della "parresia", della guida? Apro nuovi orizzonti? O semplicemente peso le mie parole per non essere di disturbo per nessuno? 

Non è una questione banale. Direi che è centrale. Soprattutto in questi contesti di dolore e disorientamento, in un contesto in cui la religione gioca un ruolo pubblico così importante, non bisogna mai smettere di chiedersi se e come la fede possa orientare la propria comunità, invitarla a interrogarsi, senza adagiarsi. La fede deve essere un conforto, un sostegno, ma anche in un certo senso un elemento di disturbo. Se la fede si fonda su un'esperienza di trascendenza, deve anche portare il pensiero a trascendere il momento presente, ad aprire i confini della mente e del cuore, ad andare oltre.

In Deut. 30:15, Dio dice: "Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male". Dobbiamo prendere atto che non si può quindi scegliere la vita e il bene, e lo vediamo ogni giorno. Tuttavia, dobbiamo anche chiederci come stare di fronte a coloro che fanno quelle scelte di male e morte, e qual è il giusto atteggiamento di un credente verso quelle responsabilità. Come dovrebbero agire e comportarsi i leader religiosi in quelle situazioni specifiche, che tipo di guida dovrebbero dare alle loro comunità riguardo non a un male generico, ma a chi perpetra questo male, come leggere quelle situazioni, oggettivamente, alla luce della Parola di Dio?

Che ci piaccia o no, fede e politica hanno sempre avuto una stretta relazione tra loro a livello di relazioni sociali. In Medio Oriente, fede e religione hanno una funzione per la vita delle comunità nazionali, e la politica ha sempre dovuto di conseguenza fare i conti con la religione e la sua funzione pubblica.

Inoltre, ogni generazione ha sempre dovuto individuare i criteri e le forme per regolare il rapporto tra queste due sfere della vita sociale di ogni Paese. La nostra generazione, e quelle che verranno, si trovano di fronte a sfide che possiamo definire uniche, poiché in questi tempi non si tratta solo di definire il rapporto tra le due sfere sopra menzionate, ma anche di ripensare il ruolo della politica e della religione, al loro interno e non solo in relazione l'una all'altra. Non di rado, la politica nazionale e la religione si trovano sulla stessa barca, accusate del male, dell'incapacità, dell'arretratezza e così via di oggi.

Inoltre, la fede religiosa gioca un ruolo chiave nel ripensare le categorie di storia, memoria, colpa, giustizia e perdono, che mettono direttamente la sfera religiosa in contatto con le sfere morale, sociale e politica. I conflitti interculturali non saranno superati se non si rileggono e si redimeno letture diverse e antitetiche della propria storia religiosa, culturale e personale. Le ferite causate nel passato remoto e recente, così come possono essere assunte, elaborate e condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli. A questo proposito, così afferma Papa Francesco:

In molte parti del mondo c'è bisogno di percorsi di pace per guarire le ferite aperte. C'è anche bisogno di operatori di pace, uomini e donne disposti a lavorare con audacia e creatività per avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro. Un rinnovato incontro non significa tornare a un tempo precedente ai conflitti. Tutti noi cambiamo nel tempo. Il dolore e il conflitto ci trasformano. Non abbiamo più bisogno di diplomazia vuota, dissimulazioni, doppi sensi, secondi fini e buone maniere che mascherano la realtà. Coloro che erano nemici feroci devono parlare dalla verità nuda e cruda. Devono imparare a coltivare una memoria penitenziale, che sappia accettare il passato per non offuscare il futuro con i propri rimpianti, problemi e progetti. Solo basandosi sulla verità storica degli eventi saranno in grado di fare uno sforzo ampio e perseverante per comprendersi a vicenda e per tendere a una nuova sintesi per il bene di tutti. Ogni "processo di pace richiede un impegno duraturo. È uno sforzo paziente per ricercare verità e giustizia, per onorare la memoria delle vittime e per aprire la strada, passo dopo passo, a una speranza condivisa, più forte del desiderio di vendetta.

Queste strade non possono essere percorse. Le comunità nazionali, siano esse politiche o religiose, hanno bisogno di persone che sappiano promuovere, orientare, guidare verso quella comprensione di sé e dell'altro, a volte anche a costo di pagare un prezzo alto in termini di solitudine, incomprensione e rifiuto.

Naturalmente, la pace non è responsabilità esclusiva del pastore e/o del leader religioso. Non vorrei dare l'impressione che la pace sia fatta solo dai leader. Tuttavia, essi sono chiamati a guidare, accompagnare e ascoltare le rispettive comunità, per creare contesti in cui le comunità possano esprimersi. Il pastore da solo non fa la comunità, ma la comunità non può esistere senza un pastore. Nel dialogo continuo, nell'ascolto reciproco e nella condivisione, nasce un serio ministero pastorale di pace. Il ruolo di un leader, profeta e voce del pastore rimane quindi ineludibile.

  • Dialogo interreligioso

Come ha detto saggiamente il rabbino JA Heschel, nessuna religione è un'isola. Pertanto, la Chiesa non può presumere di gestire un ministero di pace da sola, come se fosse l'unica realtà nella terra. Ci sarebbe molta presunzione in questo. Come se il mondo intero stesse aspettando la nostra parola e la nostra testimonianza. Non è così. Almeno non è così in Terra Santa. Come il mondo intero ora, viviamo in un contesto multiculturale e multireligioso. Senza la collaborazione di altre Chiese e altre comunità religiose, nessun ministero di pace ecclesiale può avere sostanza. Collaborare con gli altri sulla pace aiuterà anche a guarire i problemi interni alle nostre comunità, perché è solo in una relazione sincera con l'altro che possiamo definire meglio noi stessi nella verità. 

Le diverse fedi, se comprese nella loro genuinità e nella loro profonda vocazione, sono portatrici di risorse di riconciliazione e di pacificazione e raramente sono l'unico o il principale fattore scatenante di incomprensioni e conflitti, né sono di per sé un fattore di rischio in tal senso. Ma se diventano funzionali alla lotta politica, come spesso accade in Terra Santa, le religioni diventano come benzina gettata sul fuoco.

Il dialogo interreligioso ha prodotto documenti molto belli sulla fratellanza umana, sull'essere tutti figli di Dio, sulla necessità di lavorare insieme per la salvaguardia dei diritti della persona... Sono tutti frutti di un'attività che considero spirituale.

Eppure, nell'attuale contesto di guerra, tutto questo in Terra Santa sembra oggi lettera morta.

C'è un grande assente in questa guerra: la parola dei leader religiosi. Con poche eccezioni, negli ultimi mesi non si sono sentiti discorsi, riflessioni o preghiere da parte della leadership religiosa, se non da parte di qualche leader politico o sociale. Spero di essere smentito, ma si ha l'impressione che tutti parlino esclusivamente nell'ambito della prospettiva della propria comunità.

Le relazioni interreligiose che sembravano consolidate ora sembrano essere spazzate via da un pericoloso sentimento di sfiducia. Ognuno si sente tradito dall'altro, non compreso, non difeso, non sostenuto. 

Mi sono chiesto più volte in questi mesi se la fede in Dio sia davvero alla base e nella formazione della coscienza personale, creando così tra i credenti una comprensione comune almeno su alcune questioni centrali della vita sociale, oppure se il nostro pensiero si formi e si fondi su altro. 

Il mondo ebraico non si è sentito sostenuto dai cristiani e lo ha espresso chiaramente. I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, erano o divisi a sostegno di una parte o dell'altra, o incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati e considerati conniventi con le stragi compiute il 7 ottobre... insomma, dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non capirci. Mi ha causato un grande dolore, ma anche una grande lezione. 

Da questa esperienza dovremo ripartire, consapevoli che anche le religioni hanno un ruolo centrale nell’orientamento, e che il dialogo tra noi dovrà forse fare un passo importante, e partire dalle nostre attuali incomprensioni, dalle nostre differenze, dalle nostre ferite. Non potrà più essere un dialogo solo tra chi appartiene alla cultura occidentale, come è stato finora, ma dovrà considerare le diverse sensibilità, dei diversi approcci culturali, non solo europei, ma innanzitutto locali. È molto più difficile, ma dovremo partire da lì.

Questa guerra rappresenta uno spartiacque nel dialogo interreligioso, che non sarà mai più lo stesso, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei. 

E bisogna farlo, non per bisogno o necessità, ma per amore. Perché, nonostante le nostre differenze, ci amiamo, e vogliamo che questo bene trovi espressione concreta nella vita non solo nostra ma anche delle nostre rispettive comunità. Amarsi non significa necessariamente avere le stesse opinioni, ma saperle esprimere e apprezzare, e rispettarsi e accogliersi a vicenda. 

Quando è sincero e affronta questioni legate al proprio territorio e alle rispettive comunità, il dialogo interreligioso crea una mentalità di incontro e di rispetto reciproco, crea il background necessario su cui poi si potranno fondare anche le successive prospettive politiche. 

Dopo aver identificato le responsabilità indispensabili della leadership religiosa in merito alla seria cura pastorale per la pace e il modo "aperto" in cui operare, bisogna ora chiedersi su cosa devono lavorare i leader religiosi, sia all'interno delle rispettive comunità che nel dialogo tra loro. Per cosa si dovrebbe lavorare, come e con quale stile le proprie comunità dovrebbero vivere questa dimensione centrale della loro fede?

Direi che il tema centrale è il perdono. Non si può parlare di pace in astratto, come se fosse un'idea. La pace non è qualcosa che si deve fare, ma è un modo di essere nella vita, un atteggiamento integrale della persona e della comunità, che in ogni contesto - personale e collettivo - deve fare i conti con le ferite causate dalle divisioni, dagli atteggiamenti di possesso e di esclusione, dall'odio. In sintesi, deve fare i conti con il peccato. E in questo contesto, la pace è strettamente legata al perdono. Direi che possono essere considerate, se non sinonimi, strettamente necessarie l'una all'altra.

La rivelazione biblica ci dice che, come la pace, anche il perdono ha la sua radice nell'amore di Dio, e richiede prima un cammino personale, un cammino di comprensione, di 'assunzione' del male ricevuto o commesso. Non può mai avvenire per inerzia. Il male commesso non può essere dimenticato, ma richiede una precisa volontà di superamento, frutto di un desiderio chiaro e definito. Non cancella il male fatto, ma vuole superarlo per un bene superiore. Cercare di dimenticare, aspettare che solo il tempo guarisca le ferite, non assumere il male commesso, identificarlo, guardarlo in faccia, chiamarlo per nome, significa fare del perdono un gesto banale, che non guarisce nessuna ferita, non cambia il cuore delle persone, non produce pace.

A livello sociale e politico, la riflessione sul perdono richiede molto tempo. I percorsi da intraprendere sono spesso enormemente complessi perché devono prendere in considerazione non una relazione personale o contestuale, ma una sociale. Vale a dire, bisogna considerare le ferite collettive, il dolore di tutti, le necessariamente diverse comprensioni degli eventi all'origine del dolore comune e i diversi tipi di interpretazioni.

Per guardare al futuro con speranza e serenità, è necessario passare attraverso un processo di purificazione della memoria. Le ferite, se non guarite, creano un atteggiamento di vittimismo e rabbia, che rendono difficile, se non impossibile, la riconciliazione. Le ferite del passato continueranno a essere un bagaglio da portare sulle spalle e un criterio di lettura delle relazioni reciproche. Finché non ci sarà una purificazione della memoria comune da parte di tutti, finché non ci sarà un reciproco riconoscimento del male reciprocamente commesso e sofferto, insomma, finché non ci sarà una reinterpretazione dei propri legami storici.

La fede può naturalmente aprire il credente a una relazione, perché lo apre all'incontro con Dio, che poi diventa naturalmente anche uno sguardo sull'altro a partire da sé. 

Ma è necessaria anche un'educazione umana al perdono, una formazione culturale che consenta all'uomo di guardare agli eventi non solo a partire dalle proprie ferite, che hanno sempre un orizzonte limitato e chiuso. Ciò aiuterà a interpretare gli eventi a livello personale e collettivo, con una prospettiva futura, che tenga conto anche del bene degli altri, della realtà sociale, della necessità di riattivare dinamiche di vita. Pertanto, in questo contesto, la riflessione sul perdono può essere aperta anche ai non credenti.

Il primo frutto del perdono è la liberazione dai legami emotivi prodotti dal risentimento e dalla vendetta, che imprigionano ogni prospettiva di coltivare una relazione in un circolo di dolore e violenza. Il perdono consente la guarigione dell'anima umana, riattiva le dinamiche della vita e costruisce il futuro.

L'azione necessaria deve essere intrapresa in tutti gli ambiti: politico, religioso e civile, allo stesso tempo, compresi i vari gruppi di aggregazione e formazione del pensiero come la scuola, l'università e i mass media. Perché le persone interagiscono a tutti questi livelli. E il perdono, nella sua funzione di guarigione del soggetto, può agire solo se coinvolge tutte le fibre del suo essere.

La Chiesa, insieme alle altre comunità di fede, ha un ruolo fondamentale nell'educazione alla riconciliazione e nel creare il contesto per un approccio al perdono, ma non può imporlo. È necessario dare tempo e rispetto al dolore di chi soffre, ma anche aiutarlo a rileggere la sua storia, lasciando che le ferite guariscano. Spesso in Terra Santa si tratta di saper attendere. Il cuore delle persone e delle comunità non è sempre pronto e libero di parlare di perdono. Il dolore è ancora troppo forte. Spesso è più facile affrontare la rabbia che il desiderio di perdono. È necessario quindi saper attendere, ma al tempo stesso proporre la via cristiana della pace senza stancarsi.

Finora tutti gli accordi di pace in Terra Santa sono falliti, perché spesso si sono rivelati accordi teorici, che hanno preteso di risolvere anni di tragedia senza tenere conto dell’enorme carico di ferite, dolore, risentimento e rabbia che ancora covava ed esplodeva in maniera estremamente violenta negli ultimi mesi. Inoltre, non si è tenuto conto del contesto culturale e soprattutto religioso, che invece parlava un linguaggio esattamente opposto (a partire dai leader religiosi locali) a quello di chi parlava di pace.

Pertanto, in questo contesto, la pastorale della Chiesa non può non avere nel suo orizzonte di azione la proposta del perdono e della riconciliazione, che tenga conto delle ferite e del dolore, ma non si fermi lì. Il dolore può chiudersi in sé, ma può anche aprire nuove dimensioni, può trasformarsi in risurrezione. Senza questa prospettiva, nessun progetto politico può avere successo in Terra Santa, e la pace rimarrebbe solo uno slogan poco credibile. Pertanto, il compito della pastorale della Chiesa è quello di proporre instancabilmente percorsi di riconciliazione, di accompagnare gli sforzi di guarigione, di proporre linguaggi che non escludano nessuno, di tessere pazientemente trame di relazioni, di costruire la fiducia all'interno della propria comunità ecclesiale, e poi con le altre comunità religiose con gesti concreti.

  • Verità e Giustizia

Il perdono, come ho detto prima, è un tema centrale del ministero della pace. Ma nel nostro contesto, il perdono non può essere separato da altre due parole: verità e giustizia. 

La sofferenza, il dolore, le ferite che questo conflitto ha causato sono ben note. Non sono qui per elencare i mali che si stanno facendo. Non è questo il tema di questo incontro, e penso che sia un tema noto a tutti. E non intendo qui entrare nella questione di questa fase del conflitto che sta avvenendo ora, iniziata il 7 ottobre.

Da decenni in Terra Santa c'è l'occupazione israeliana dei territori della Cisgiordania, con tutte le sue drammatiche conseguenze sulla vita dei palestinesi e anche degli israeliani. La prima e più visibile conseguenza di questa situazione politica è la condizione di ingiustizia, di non riconoscimento dei diritti fondamentali, di sofferenza in cui vive la popolazione palestinese in Cisgiordania. È una situazione oggettiva di ingiustizia.

Come ho detto prima, per la nostra Chiesa il conflitto con le sue conseguenze è parte integrante della vita ordinaria, ed è inevitabilmente parte del pensiero e della riflessione dell'intera comunità. Non di rado, come in questo periodo, è oggetto di riflessione e discussione aspre e dolorose. Mantenere la comunione tra cattolici palestinesi e israeliani, in questo contesto lacerato e polarizzato, è più difficile che mai.

Pertanto, non si può parlare di perdono senza parlare di verità e giustizia. Non dire una parola di verità sulla vita di un palestinese, la cui vita è stata una somma di decenni di attesa affinché giustizia e dignità fossero concesse, equivarrebbe a giustificare una situazione oggettiva di ingiustizia.

Nel Patriarca latino di Gerusalemme, mi sono trovato, fin dall'inizio di questo conflitto, in una situazione che richiede una scelta, e una posizione chiara e precisa. Come conciliare questa chiamata a schierarmi con ciò che sono e ciò che ho appena detto sul perdono? Come difendere i diritti di Dio e dell'uomo in questo contesto, come parlare di perdono, per essere fedele a Cristo che sulla croce ha perdonato liberamente, senza dare l'impressione di non difendere il gregge a me affidato, i suoi diritti, le sue aspettative? Come predicare l'amore ai nemici senza dare l'impressione di confermare inconsapevolmente una narrazione contro l'altra, israeliano contro palestinese, o viceversa? Come sanare le divisioni con scelte ferme e giuste, ma senza creare altre divisioni, e sempre con misericordia? 

Più concretamente, mi viene spesso chiesto: "Come posso pensare di perdonare l'israeliano che mi opprime, finché sono sotto oppressione? Non significherebbe dargli il sopravvento, dargli carta bianca senza difendere i miei diritti? Prima di parlare di perdono, non è necessario che si faccia giustizia?" A sua volta, l'israeliano, potrebbe aggiungere: "Come posso perdonare coloro che uccidono il mio popolo?". Sono domande dietro le quali c'è un dolore reale, sincero, da rispettare. 

Non so se sia possibile rispondere a queste domande, ma non si può evitare di porsele. Un ministero di pace non può ignorare le ferite della sua comunità, né può illuderla con risposte facili che non toccano la vita reale. Alcune situazioni non hanno soluzioni immediate e forse nessuna soluzione. Ma c'è comunque un modo cristiano di essere dentro un conflitto. La pace può essere vissuta anche in queste circostanze. Spesso più che risposte facili, che probabilmente non esistono, bisogna aiutare a individuare percorsi e stili di vita. 

Ho cercato di segnalarne alcuni, con una lettera alla diocesi inviata qualche mese fa, che vorrei qui citare:

“Avere il coraggio dell’amore e della pace qui, oggi, significa non permettere all’odio, alla vendetta, alla rabbia e al dolore di occupare tutto lo spazio del nostro cuore, del nostro discorso, del nostro pensiero. Significa impegnarsi personalmente per la giustizia, essere capaci di affermare e denunciare la dolorosa verità dell’ingiustizia e del male che ci circonda, senza lasciare che inquinino le nostre relazioni. Significa impegnarsi ed essere convinti che vale ancora la pena fare tutto il possibile per la pace, la giustizia, l’uguaglianza e la riconciliazione. Il nostro discorso non deve riguardare la morte e le porte chiuse. Al contrario, le nostre parole devono essere creative e vivificanti, devono dare prospettiva e aprire orizzonti. 

ci vuole coraggio per poter esigere giustizia senza diffondere odio. Ci vuole coraggio per chiedere misericordia, per rifiutare l'oppressione e per promuovere l'uguaglianza senza pretendere uniformità, pur restando liberi. Ci vuole coraggio oggi, anche nella nostra diocesi e nelle nostre comunità, per mantenere l'unità, per sentirci uniti gli uni agli altri, anche nella diversità delle nostre opinioni, sensibilità e visioni. 

Voglio, e vogliamo, essere parte di questo nuovo ordine inaugurato da Cristo. Vogliamo chiedere a Dio questo coraggio. Vogliamo essere vittoriosi sul mondo, prendendo su di noi quella stessa Croce, che è anche la nostra, fatta di dolore e di amore, di verità e di paura, di ingiustizia e di dono, di grido e di perdono». (Lettera a tutta la diocesi, pubblicata il 24.10.2023)

In conclusione, il perdono da solo non può costruire la pace. La verità e la giustizia da sole non possono costruire la pace. Il rapporto tra queste parole non è mai facile ed è fonte di grande discussione, ma anche di bella riflessione.

Parlare solo di perdono, senza tener conto della verità e della giustizia, nel nostro preciso contesto, significa ignorare il fatto che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio; significa ignorare la sua dignità di persona, con tutti i diritti connessi a tale identità. Parlare di perdono, senza considerare il diritto di una persona a una vita giusta e dignitosa, significa negare un diritto di Dio e non costruire la pace. 

Verità e giustizia, separate dal perdono, hanno gli stessi limiti. Affermare la necessità di verità e giustizia è un'attività sacrosanta. Ma se queste sono separate dal desiderio di perdono, di superamento del male commesso, mettono l'avversario in un angolo, senza via d'uscita. Ci si mette di fronte alle sue responsabilità, ma senza superarle, senza offrire alcuna prospettiva di soluzione. Alla fine diventa recriminazione e basta. Anzi, tutto questo può provocare una reazione di opposizione ancora più aggressiva.

Perciò è necessario che la pastorale della Chiesa sappia porre questi tre elementi in continuo, difficile, doloroso, complesso, lacerante, faticoso dialogo tra loro. Ma è un processo fecondo e rispettoso dei diritti di Dio e dell'uomo, e costruisce, a poco a poco, nei tempi, prospettive di pace. Perché ciò che sostiene questi tre modi di essere nella vita e nelle relazioni tra noi non è un'ideologia, ma l'amore. «L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). È quell'amore che spinge il nostro desiderio di pace. Nient'altro.

Conclusione

In conclusione, a mio parere, il ministero della pace nella Chiesa non consiste in niente di più che essere semplicemente la Chiesa. Rimanendo noi stessi, ancorati a ciò che ci sostiene, vivendo, proclamando e testimoniando questo senza paura o ipocrisia.

A questo proposito, mi permetto di aggiungere una piccola riflessione. In Terra Santa, assistiamo dolorosamente alla crescente crisi delle organizzazioni multilaterali, come l'ONU, sempre più inefficace e, per molti, limitata dalle grandi potenze (si pensi solo ai vari poteri di veto). La comunità internazionale è sempre più debole, e così lo sono le varie altre organizzazioni internazionali.

Insomma, coloro che a livello internazionale sono deputati a mantenere e promuovere la pace, a difendere i diritti, a costruire modelli di società dignitosi, hanno mostrato tutte le loro debolezze. La leadership locale è in guai ancora più grandi, di ogni genere. Una realtà che purtroppo è ben nota a tutti.

Ciò che manca, insomma, sono riferimenti politici e sociali capaci di compiere gesti sul territorio, di costruire fiducia, di fare scelte coraggiose per la pace, di negoziare riconciliazioni, di accettare i compromessi necessari, e così via.

In questo contesto desolante, gli operatori pastorali, i pastori e la Chiesa devono stare attenti a non cadere in una facile tentazione: quella di sostituirsi a quelle organizzazioni e di lasciarsi coinvolgere nelle dinamiche delle trattative politiche che per loro stessa natura sono soggette a compromessi mai facili, spesso dolorosi e controversi. La tentazione di riempire il vuoto lasciato dalla politica è facile, e la richiesta di molti di colmare quel vuoto è sempre insistente.

Ma non è questo il compito della Chiesa, che - come ho detto - deve rimanere Chiesa, comunità di fede, il che non significa essere distaccata dalla realtà, ma essere sempre disponibile a impegnarsi con chiunque per costruire la pace, a facilitare la creazione di contesti che aiutino a costruire prospettive politiche, ma rimanendo autenticamente fedele alla missione della Chiesa, senza entrare in dinamiche politiche che non le appartengono e che per loro stessa natura sono spesso estranee alla logica del Vangelo.

Il ministero della pace ha come riferimento solo il Vangelo. I caratteri e i criteri per costruire la pace si trovano tutti lì. Da lì si deve partire e lì si deve sempre tornare. Il contributo che possiamo portare alla vita sociale della nostra travagliata diocesi consiste nel creare nella comunità il desiderio, la disposizione e l'impegno sinceri, leali, positivi e concreti per incontrare l'altro, per saper amare nonostante tutto, per aiutare a interpretare il proprio dolore alla luce della fede, per saper fare unità tra fede e vita. A partire dall'ascolto della Parola di Dio, che è la fonte principale di ogni criterio per interpretare la nostra realtà di vita.

Il ministero della pace ha come riferimento solo il Vangelo. I caratteri e i criteri per costruire la pace sono tutti lì. Da lì bisogna partire e sempre tornare a lì. Il contributo che possiamo portare alla vita sociale della nostra travagliata diocesi consiste nel far crescere nella comunità il desiderio, la disposizione e l'impegno sincero, leale, positivo e concreto per l'incontro con l'altro. Per saper amare nonostante tutto, per aiutare a interpretare il proprio dolore alla luce della fede, per saper fare unità tra fede e vita. A partire dall'ascolto della Parola di Dio, che è la fonte principale di ogni criterio di interpretazione della nostra realtà di vita.


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Fonte: Conferenza del 7 maggio 2024 https://lpj.org/en/latin-patriarch-of-jerusalem/documents/speeches/caratteri-e-criteri-per-una-pastorale-della-pace 

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