martedì 24 giugno 2025

Card. Pierbattista Pizzaballa, Omelia del 19 giugno 2025 Solennità del Corpus Domini


Cardinale Pierbattista Pizzaballa

Omelia del 19 giugno 2025

Solennità del Corpus Domini, Anno C



Carissime sorelle e fratelli, il Signore vi dia pace!

Il primo spunto di riflessione si trova nel riferimento dell'evangelista alla fame della gente. Sappiamo bene che alla fine di una giornata calda in una regione desertica, il bisogno di ristoro e cibo è immenso. C'è quindi un reale bisogno di ristoro e, allo stesso tempo, di preoccupazione per una grande folla. L'evangelista ci dice che c'erano circa cinquemila uomini (Luca 9:14).

D'altra parte, vediamo la povertà dei discepoli, che non hanno altro che cinque pani e due pesci (Lc 9,13). Anche le condizioni in cui tutto questo avviene sono sfavorevoli: è ormai sera e ci troviamo in una regione desertica (Lc 9,12).

In breve. La folla ha seguito Gesù per un giorno intero, con il caldo, senza mangiare, stanchi e affamati, ma alla sera erano tutti ancora con lui, invece di tornare a casa.

Sono sempre stupito da questo dettaglio e mi chiedo se ci troviamo nella stessa situazione di quella folla: sappiamo davvero, come quei cinquemila, mettere da parte i nostri bisogni materiali e cercare la Sua presenza, ascoltare la Sua voce, mangiare il Suo pane, che è Lui stesso? Di cosa abbiamo veramente fame? Quale cibo cerchiamo? Non c'è una sola fame, lo sappiamo bene. Si possono avere molte forme di fame. Allora, qual è la fame che ci caratterizza? Cosa nutre la nostra vita cristiana? Quanto l'Eucaristia sostiene la nostra vita di fede? Cosa stiamo cercando?

La soluzione che i discepoli propongono per la fame della folla è che la gente se ne vada e ognuno cerchi per sé ciò che possa saziare la propria fame (Lc 9,12). La risposta di Gesù, invece, è esattamente opposta e ci introduce nel cuore del mistero eucaristico: la gente rimanga (Lc 9,13) e che siano i discepoli stessi a sfamare tutti. In altre parole, non che ognuno provveda a sé stesso, ma che siano i discepoli a condividere ciò che hanno con tutta la folla! Una richiesta umanamente impossibile da esaudire. Invece, è proprio questo che accade. Partendo dal poco che aveva a disposizione, Gesù compie il miracolo della moltiplicazione e dona pane a sufficienza per tutti.

Quando parliamo di fame, di solito pensiamo a popolazioni lontane, a qualcosa di teorico. Non avremmo mai pensato che anche oggi, qui tra noi, siamo costretti a parlare della fame come qualcosa di reale che tocca la vita della nostra gente. Penso a Gaza, certo, ma non solo a Gaza. Penso alle tante situazioni di povertà che il conflitto ha creato, rendendo la vita estremamente difficile a troppe famiglie.

Viviamo quindi in un'epoca di vera fame. E con essa arriva la fame di giustizia, di verità, di dignità. Anche queste ultime sembrano parole che appartengono a un mondo molto lontano dal nostro, che non ha nulla a che fare con le nostre vite reali.

E di fronte alla tragica situazione che stiamo vivendo, forse anche noi ci troviamo di fronte alla stessa tentazione dei discepoli. Abbandonare. Rinunciare. Gettare la spugna. Smettere di sperare e credere che sia possibile saziare la nostra fame, che qualcuno possa confortare i nostri cuori assetati di giustizia e dignità. Che questo conflitto non potrà mai cambiare le nostre vite. Che qui non ci sia alcuna possibilità di una vita dignitosa per noi.

La risposta di Gesù ai discepoli, tuttavia, è chiara e indica ciò che dovrebbe sempre caratterizzare la vita del cristiano. Ed è quindi la risposta anche per noi oggi, anche per noi in Terra Santa: «Voi stessi date loro da mangiare » (13).

Fare dono di sé, diventare noi stessi eucaristici. Essere con Cristo ci permette di abitare la nostra povertà, di viverla come occasione di condivisione e comunione, di affidamento e dono. E questo è possibile anche per noi, qui e ora, soprattutto per noi pastori. Non siamo strumenti neutrali del sacramento, non canali indifferenti attraverso i quali semplicemente distribuiamo l'Eucaristia ai fedeli. Gesù invita a diventare prima noi stessi "eucaristici", cioè persone che si donano e la cui vita è una lode costante a Dio. Non ci viene chiesto di condividere il nostro sapere, ma la nostra vita, in cui risplende l'opera di Dio. Solo così possiamo dare una forma precisa e riconoscibile al nostro gregge, per tradurre nella vita delle comunità ciò che celebriamo nel mistero.

E in questo tempo di conflitto e di guerra, la risposta di Gesù ai discepoli è un invito per la nostra comunità ecclesiale a tradurre in vita ciò che celebriamo nell'Eucaristia. Significa saperci donare, essere solidali gli uni con gli altri, continuare – nonostante tutto – a costruire relazioni, ad aprire orizzonti, a dare fiducia, ad avere il coraggio di essere inclusivi, cioè di accogliere l'altro quando tutto indica il contrario. Significa saper condividere e vivere, senza mai perdere la speranza. Nonostante le tante difficoltà esterne e interne, non rinunciare alla vita ecclesiale, non chiudersi in se stessi, ma al contrario, e nonostante tutto, credere sempre che Gesù, e solo Lui, può trasformare il poco che abbiamo, anche la nostra poca fede, in pienezza di vita per tutti.

Non possiamo farcela da soli. Non siamo capaci di tanto. Solo Gesù può darci questa forza e aprirci a questa libertà. E solo nell'Eucaristia, nell'incontro con Cristo morto e risorto che si dona a noi, possiamo ricevere questa capacità.

Gesù ci dà un ulteriore suggerimento in questo brano. Ci chiede di dividere i presenti in piccoli gruppi: non più una folla anonima, ma piccole comunità ben definite e riconoscibili, in cui la condivisione e la reciprocità siano più facili.

Ci dice che l'Eucaristia è il centro della comunità, ma anche che l'Eucaristia forma la comunità. Senza l'Eucaristia, non c'è comunità. L'Eucaristia crea comunità solidali in cui ci sosteniamo a vicenda. "Tutti i fedeli stavano insieme e avevano ogni cosa in comune... condividevano con ciascuno il necessario... e spezzavano il pane nelle case e prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore" (Atti 2:44-46).

Uno dei problemi della nostra Chiesa oggi è proprio l'anonimato delle nostre comunità, che sono più simili a folle che ai gruppi di cinquanta che Gesù formò nel nostro brano. Non ci conosciamo e quindi non possiamo condividere la vita. Il Vangelo ci invita a dare alle nostre comunità un volto e un'identità chiari, costruiti attraverso la nostra intimità con Cristo piuttosto che attraverso le nostre attività sociali o pastorali.

Il brano si conclude con un ultimo elemento: si tratta di ciò che avanza, che riesce a riempire fino a dodici ceste (Lc 9,17). Dove le persone si arricchiscono a vicenda con il poco che hanno, sperimentano di essere veramente ricche, di vivere nell'abbondanza, di avere più di quanto osassero sperare.

Le comunità formate dall'Eucaristia saranno anche comunità ricche, nelle quali non manca nulla e che, nonostante la povertà di mezzi, sanno far trasparire la presenza di Dio, nostra vera ricchezza.

Allora il miracolo si compia ancora una volta. Che il Signore moltiplichi i nostri pochi pani e pesci. Ma perché il miracolo avvenga, dobbiamo ravvivare il nostro desiderio di Gesù, la fame di Lui, essere pronti a mettere a disposizione la nostra povertà, cioè accettare di perdere anche il poco che abbiamo e mettere tutta la nostra vita senza riserve nelle mani del Pastore Supremo. Solo Lui può trasformare la nostra fragile umanità in uno strumento di salvezza.

Che il pane celeste nutra e rafforzi il cammino della nostra Chiesa di Terra Santa e, per intercessione della Vergine Madre della Chiesa e Madre nostra, ci sostenga nelle nostre diverse vicissitudini. Amen.

+Pierbattista




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